Tutti nella vita avremmo bisogno di un punto di riferimento, un amico o una persona fidata su cui andare puntualmente sul sicuro. Patrick Jane è come il grande calciatore di una squadra compatta ed efficace, colui che risolve sempre le partite e che sai che le risolverà sempre, perché non c’è ostacolo che non sia abbondantemente nelle sue corde. The Mentalist mette in campo una squadra di buoni giocatori, ognuno con caratteristiche tecniche ben definite e funzionali al gioco, ma che senza il proprio fuoriclasse, il proprio top player, non sarebbe mai la stessa.
Patrick Jane è il prototipo perfetto di risolutore
Un ruolo che nel poliziesco moderno fatica sempre di più a trovare una collocazione che non somigli a qualcosa di lontanamente già visto. The Mentalist, come del resto la maggior parte dei prodotti del suo genere, è la sagra del cliché e della ripetizione “comoda”, quella che funziona e funzionerà per sempre e che non deve essere necessariamente stravolta, quanto più necessita di un elemento che faccia passare in secondo piano tutti i cliché del caso, ovvero tutti i difetti di una squadra altrimenti imperfetta, e quell’elemento è proprio Patrick Jane, un fuoriclasse senza tempo e senza età. Da un punto di vista strutturale, il crime leggero da 40 minuti, il formato più classico che ci sia in era moderna, non può che proseguire quotidianamente e puntualmente con la ripetitività di determinati canoni: il caso del giorno, le difficoltà nel risolverlo e la consegna alla giustizia dell’assassino. Patrick Jane, interpretato da un memorabile Simon Baker, con quel suo faccione da perfetto gentleman che qualunque padre di famiglia sarebbe fiero di avere come genero, è il punto cardine su cui si basa qualsiasi svolta di puntata di The Mentalist. E la cosa che lo rende perfetto per questo ruolo è che lui è il primo a sapere di ricoprire tale ruolo.
La vita di Jane ruota attorno alla perenne ricerca di Red John, lo spietato serial killer che gli ha rovinato per sempre la vita, e i casi da risolvere nel quotidiano, sembrano più rompicapi, passatempi con cui il genio si diletta in attesa di trovare nuove vie e opportunità per arrivare al suo unico e vero obiettivo vitale. La collaborazione con il CBI gli ha restituito un motivo per andare avanti, gli ha concesso una seconda opportunità, dopo una vita passata a sperperare il proprio talento senza ritegno. Il Patrick Jane che lavora per Teresa Lisbon è un uomo ritrovato e rinnovato, una perfetta maschera che filtra il reale modo d’essere di una personalità eccentrica e bizzarra, altrimenti senza alcun tipo di freno inibitorio. Ed è proprio questa possibilità di agire senza preoccuparsi delle conseguenze, la giustificazione di una totale assenza di peli sulla lingua che permette a Patrick di andare avanti e di non spegnere la luce della speranza. Tra un caso e l’altro ci rendiamo conto che la ripetitività dei canoni fa parte di lui, perché ci arriva sempre prima di chiunque altro, forse fin da subito, una volta conosciute tutte le dinamiche, grazie a uno spirito di osservazione fuori dal comune e un talento indiscutibile che somiglia quasi più a un potere ultraterreno.
The Mentalist è, a modo suo, l’eccezione che conferma la regola
Ma con The Mentalist non ci si deve per forza annoiare. La sottile linea comica della serie è ben diversa da quella di prodotti ancora più esplicitamente mainstream, come i vari spin-off formato famiglia di NCIS o Chicago, è più accettabile e realistica. La serie ideata da Bruno Heller, autore, tra gli altri, di Gotham, gioca esplicitamente sui cliché del genere: abbiamo l’agente redento con un passato difficile come membro di una gang, Cho, un inespressivo e solido asiatico tutto d’un pezzo, che sfrutta contestualmente il cliché della freddezza degli asiatici (della serie, pensate se fosse sbucato da una gang afroamericana o latina, mica poteva riuscire allo stesso modo), poi ancora l’agente pacioccone, timido e dal cuore tenero, il gigante buono Rigsby, che esibisce i suoi sentimenti più di tutti e che combatte contro un passato altrettanto complicato, essendo cresciuto con un padre criminale e ostile, al quale però riconosce, a differenza dei classici canoni, un senso d’appartenenza che non deve necessariamente intaccare con le differenti scelte di vita fatte dai due, un amore più reale e profondo, diciamo. Poi Teresa, l’unica donna in grado di completare l’anaffettività di Jane, l’unica davvero conscia e consapevole di tutti i suoi poteri e, soprattutto, dei suoi limiti. Senza Teresa, Jane probabilmente non sopravviverebbe alla prima stagione, e noi capiamo che lui si rende conto di ciò, come sempre prima di tutti, e sguazza anche in questa condizione. In The Mentalist, Patrick Jane svolge un percorso di crescita incredibile, soprattutto considerando che la narrazione comincia in medias res e quello che ci viene presentato dall’inizio è un uomo già rinato, o circa, ma rispetto a quello che impariamo a conoscere attraverso i vari flashback disseminati lungo la serie e i vari racconti del passato di Jane come truffatore e sensitivo, ci si rende conto di quanto il protagonista sia cresciuto, attraverso un nuova quotidianità, che equivale a una ritrovata serenità, fatta di canoni e ripetizioni che, talvolta, possono guarire anche le anime più oscure, quelle ferite dalla mostruosità del mondo reale, quelle con cui la vita è stata davvero troppo ingiusta.