The White Lotus è stata una delle piacevoli sorprese degli ultimi anni, in particolare, per il pubblico nostrano, con la sua seconda stagione ambientata tra le meravigliose e suggestive località della Sicilia. La serie targata HBO e scritta da Mike White ha assunto immediatamente una particolare ed affascinante aurea di sensualità, sia grazie all’uso di elementi referenziali e musicali azzeccati, sia per una qualità indiscutibile di cui spesso ci si dimentica in ambito seriale, e sulla quale vogliamo concentrarci in questo articolo: l’intreccio.
The White Lotus è una scacchiera in cui le pedine si muovono attraverso il caos
The White Lotus si fa guardare tutta d’un fiato per diversi motivi. Uno di questi è sicuramente la forza dei suoi personaggi, accuratamente disegnati e dettagliati, in grado di attrarre lo spettatore e catturarne l’attenzione. La maggior parte degli interpreti dispone di una personalità forte e credibile, chi più chi meno, ma ognuno di essi ha una storia da raccontare e gli autori sono abilissimi a muovere le pedine della scacchiera creando situazioni di ogni tipo e riuscendo a far interagire praticamente tutti tra loro. Per quanto si tratti di personaggi vuoti e immobili, appartenenti a una borghesia frivola e fredda, ognuno di essi aggiunge qualcosa alla trama e collabora affinché questa funzioni al meglio. Il dettaglio veramente utile a comprendere quanto sia abile il lavoro svolto in fase di scrittura è dato dalla scoperta, immediata, nelle prime battute, che sul finale avviene un delitto, del quale non si conosce assolutamente nulla dato che i personaggi sono ancora da scoprire. A dire la verità, nella prima stagione, ambientata in un magnifico resort hawaiano, la curiosità si mantiene costante, perché in effetti è davvero difficile capire chi possa essere il malcapitato, almeno fino all’ultimo. Nel secondo capitolo di The White Lotus, invece, la risposta è intuibile in anticipo, per come si mettono le cose. In ogni caso, il tutto passa in secondo piano, e ci si dimentica subito di quale sia lo scopo finale della serie, perché fin dal momento in cui le anime del purgatorio con cui abbiamo a che fare ci vengono presentate, ci sentiamo attratti da loro e dalle loro personalità, dalle loro storie. Tanto che la cosa veramente importante ed interessante è scoprire chi tra i personaggi indossa una maschera e di chi, invece, ci possiamo fidare.
Seducente noia borghese
Nella seconda stagione di The White Lotus viene utilizzato un espediente molto utile ai fini della trama, ovvero il tema della prostituzione. Mia e Lucia, interpretate dalle bravissime Beatrice Grannò e Simona Tabasco, sono le due pedine fondamentali della scacchiera, in grado di muoversi tra i vari nuclei e intromettersi praticamente in tutte le sottotrame, andando in primis a collidere con mondi diversi rispetto a quello a cui appartengono e, in secondo luogo, a creare il più totale scompiglio con un tattico mordi e fuggi che dà origine al caos generale di cui si nutre la serie. La storia di queste due ragazze sarebbe la più profonda e interessante da analizzare, ma in The White Lotus non c’è spazio per opera di redenzione alcuna, tutto è in favore del disordine più totale, condito dall’eccesso e lo sfarzo pittoresco di un mondo reale in cui la borghesia ottocentesca non si è mai estinta e, anzi, si è rafforzata, evoluta. Lucia va a letto con tre diversi personaggi per il semplice gusto di vivere il più a lungo possibile all’interno del White Lotus, e finendo per sfruttare la dolcezza e l’ingenuità di Albie, che in lei vede davvero qualcosa. O almeno così sembra, perché un qualunque personaggio così costruito sarebbe finito in depressione o, quanto meno, avrebbe sofferto la scoperta di essere stato tradito nel profondo, e invece lui, pur sembrando il più umano tra tutti, se ne infischia e, come se nulla fosse, chiede il numero di telefono a Portia, riprendendo da dove aveva terminato e dimostrando una tristissima indifferenza totale nei confronti della crudeltà del genere umano. E’ questa la borghesia narrata in The White Lotus, immobile e passiva, profondamente annoiata e infelice, insoddisfatta, come nei romanzi ottocenteschi.
L’unica costante delle due stagioni è rappresentata dal personaggio di Tanya, la superba Jennifer Coolidge, all’alba di una nuova spumeggiante parte della sua carriera. La scelta di mantenere un riferimento a cavallo tra i due capitoli della serie non è di certo banale o casuale, ma il fatto è che la stessa Tanya vive due storie completamente diverse, seppur accomunate. Nella prima stagione è un fiore pronto a sbocciare, mentre nella seconda la trasformazione si compie definitivamente e ne viene fuori una splendida farfalla, vittima della sua estrema fiducia nel prossimo e della sua incapacità di reagire agli stimoli esterni. Ancora una volta regna la passività, e i personaggi altro non fanno che subire la trama, vivere giorno per giorno di nuovi intrecci e implicazioni, senza preoccuparsi delle conseguenze dei propri gesti né della propria triste e inaccettabile condizione. Non è soltanto l’apparenza ad ingannarci, non sono solo i colori e lo sfarzo ad attrarre l’attenzione di chi guarda, bensì quella triste spensieratezza causata da una vita semplice e agiata, dalla quale tutti siamo attratti ma che nessuno vorrebbe vivere realmente, nemmeno per un secondo.