Totenfrau – La signora dei morti, serie tv tedesca tratta dalla trilogia letteraria dello scrittore austriaco Bernhard Aichner e dallo scorso 5 gennaio su Netflix, non è un capolavoro. Sia sulla suddetta piattaforma che altrove si possono trovare serie crime costruite in modo decisamente migliore e autentiche pietre miliari (una di esse resterà, ahinoi, incompleta per sempre: Mindhunter).
Totenfrau è scritta e recitata piuttosto bene, con ambientazioni suggestive e una trama condita di colpi di scena ma nel complesso abbastanza prevedibile. Quindi, perché ne stiamo parlando, dedicandole addirittura un articolo nella giornata internazionale della donna?
Perché in Totenfrau il personaggio principale è una donna che, insieme ad altre, è riuscita a decostruire realmente alcuni degli stereotipi più grandi legati alle donne nelle serie tv crime. Per questo è importante che se ne parli e che si inviti a vederla: la sua protagonista, fredda come la neve delle Alpi in cui è ambientata, resterà sicuramente impressa.
Brunhilde Blum (chiamata nella serie da tutti, ma proprio tutti, semplicemente Blum) è un impresario di pompe funebri che vive in una pittoresca località delle Alpi tirolesi, vicino a Innsbruck. Quando il marito poliziotto muore investito da un misterioso pirata della strada la donna, non paga delle rassicurazioni della polizia che le assicura che prenderanno il bastardo che ha ucciso il loro collega, comincia a indagare da sola. E fa bene perché le sue indagini porteranno a scoperchiare il famigerato vaso di Pandora: un intrigo di perversione, interessi economici, cultura patriarcale e antichi crimini che permea la piccola comunità come una nebbia tossica.
Blum non è la classica detective delle serie tv crime: non è affatto una detective, anche se sembra naturalmente incline a scavare a fondo, forse per deformazione professionale. Proprio il suo mestiere, così intriso di umanità ma così apparentemente disumano (sapete come si tiene chiusa la bocca ai morti? Guardando Totenfrau lo scoprirete) la rende una persona così distaccata dagli altri che persino suo marito, la persona più importante della sua vita, la chiama per cognome. Fino a qui non ci sarebbe niente di diverso da tante altre serie crime in cui la protagonista è una donna, anzi, è proprio uno dei cliché più ricorrenti: quindi perché Blum sarebbe diversa dalle altre?
Perché, chi vedrà la serie se ne renderà conto molto presto, Blum è più che semplicemente distaccata. È una vera e propria macchina da vendetta, senza la parvenza di rimorso e talmente convinta di intraprendere la strada verso la giustizia da diventare sanguinaria tanto quanto le persone che si ritroverà a punire. Allo stesso tempo, però, non perde del tutto la sua umanità, anche se lo spettatore avrà sempre l’impressione che anche gli atti di altruismo che compie (ospitare in casa sua la vittima di una tratta) siano finalizzati al raggiungimento della vendetta.
Blum non è a suo agio con le persone: solo i morti le ispirano davvero fiducia, al punto da parlarci, confidarsi e servirsene come coscienza. Solo di fronte ai suoi cadaveri Blum è davvero se stessa: lo dimostra il fatto che lascerà che le sue emozioni abbiano il sopravvento solo quando si troverà a dover ricomporre il corpo del marito. Solo così, affondando fino ai gomiti nelle sue budella e seminando morte per vendicarlo, riesce a dimostrargli quanto lo ama.
Come nella migliore tradizione crime anche Blum ha un’infanzia traumatica e ha subito abusi. Come li supera, però, è uno degli elementi che rende interessante Totenfrau e che allontanano la protagonista dalle eroine tormentate di tante altre serie crime. Il cliché del detective traumatizzato, con un passato difficile e vittima di abusi è necessario nel genere crime perché fornisce un movente: la scelta lessicale non è azzardata perché si tratta esattamente dello stesso processo che affronta chi commette un crimine.
Un serial killer commette omicidi perché nella vita è stato vittima di abusi e violenze: il detective o la detective sarà motivato a risolverli se anche nella sua vita sono presenti ombre. In Totenfrau, Blum veste i panni dell’investigatrice determinata a scoprire la verità dietro la morte del marito: allo stesso tempo, più la sua indagine va avanti, più i suoi modi si fanno efferati e calcolatori, e proviamo la sensazione che le piaccia davvero uccidere. I flashback sul suo passato aggiungono i pezzi che mancavano per completare il quadro di una personalità con diversi tratti antisociali che la avvicinano più a una serial killer che a una giustiziera romantica.
In Totenfrau la protagonista è giustiziera e assassina, eroina e antieroe, vittima e carnefice: eppure questo personaggio femminile così dirompente è passato quasi del tutto inosservato.
Ci sono altre serie tv che hanno contribuito a decostruire l’immagine della donna nel genere crime: quello che le accomuna è la costruzione di personaggi femminili emancipati, per nulla assoggettati alla figura maschile e spesso con un carattere pieno di ombre. Ben diverse dall’immagine stereotipata delle detective in carriera o della spalla sexy dell’investigatore maschio.
In Deadwind, produzione finlandese, la detective Sofia Karppi è carismatica, sbrigativa e insofferente nei confronti del suo partner, il nuovo arrivato Sakari Nurmi, un bel tenebroso che non riesce a fare breccia nella corazza impenetrabile della detective. Nella serie francese Black Spot (Zone Blanche in originale) Laurène Weiss, capo della gendarmeria di un piccolo e isolato paese sperduto nella foresta, deve fare fronte a una serie di omicidi e sparizioni seriali che sembrano ricondurre ad antichi riti pagani. Laurène è una forza della natura, una sopravvissuta nel cui inconscio sono racchiusi ricordi e traumi preziosi per la risoluzione dei casi.
Nella serie danese L’uomo delle castagne (tratta dal libro di Søren Sveistrup) incontriamo Naia Thulin, una detective tosta, insofferente per l’accostamento con un partner che giudica non all’altezza delle sue capacità e della difficoltà dei casi che dovranno risolvere. In tutte queste serie ricorre il leitmotiv della donna forte, indipendente, dalle maniere brusche e per questo guardata con rispetto e una punta di timore reverenziale dai colleghi maschi.
Il rovescio della medaglia è che, come i protagonisti maschili di serie crime, l’aspetto della vita privata di queste donne è un autentico disastro: trascurano la famiglia, hanno relazioni sentimentali poco stabili e il lavoro le assorbe fino a sfiorare l’ossessione. Ma questi sono tutti elementi narrativi che, nell’ottica della caratterizzazione del personaggio, non possono che giovare in una serie di genere crime.
Astrid, protagonista di Equinox, serie tv danese, è una giornalista ossessionata dalla scomparsa della sorella e dei suoi compagni di classe. Tra visioni inquietanti e richiami al folklore e alla tradizione pagana, questa serie affronta il tema della salute mentale proponendo un’affascinante punto di vista: la fede può arrivare dove mancano i fatti.
È costellata di personaggi femminili intensi La ragazza di neve, produzione spagnola tratta dall’omonimo romanzo di Javier Castillo. Miren, una giornalista che ricerca la verità dietro la sparizione di una bambina, è una giovane ambiziosa che segue il suo istinto con una determinazione incrollabile unita a una fragilità che non può non farcela amare. Le altre donne che incontrerà (e con cui si scontrerà) nel corso delle sei puntate incarnano tutte le contraddizioni che compongono la figura contemporanea della madre: protettiva, assente, ossessiva, combattiva, amorevole, carceriera.
Se sul lato della parità di diritti sociali c’è ancora molto da lavorare, titoli come Totenfrau e molti altri sono un segnale che, almeno nelle serie tv crime, molto si sta facendo per costruire personaggi femminili di un certo spessore.