Sentite anche voi il Requiem di Mozart risuonare nell’aria? Udite anche voi le parole di un mesto epitaffio, destinate a un funerale celebrato ancora prima di avere il defunto dentro la bara? Noi sì, da alcuni anni. Ben prima dell’estrema unzione, anche se abbiamo diversi dubbi a riguardo. Ne diamo allora il triste annuncio, riservandoci di dare le eventuali condoglianze solo al termine della cerimonia. Soprattutto, dopo aver fatto tutte le verifiche del caso. Stando a quanto sostenuto da fonti assolutamente ufficiose, seppure autorevoli, la tv di qualità sarebbe morta.
Si nutrono dei dubbi importanti anche a proposito dell’età della presunta vittima, forse uccisa dall’eccessivo entusiasmo dei player dello streaming. Aveva quattordici anni? Una ventina? Venticinque, secondo i più accreditati? E come si chiamava davvero, questa tv di qualità? Qualcuno avanzerebbe la possibilità che il suo nome di famiglia fosse in realtà Soprano-Goodman in White, ma ci arriveremo tra poco.
Vabbè, finiamola qua e diamo un senso alla questione. Alcune settimane fa, in occasione del venticinquesimo anniversario della prima messa in onda dei Soprano, David Chase, showrunner della serie, si è sbilanciato con affermazioni molto impegnative a proposito dello stato di salute della tv di oggi. Ed è stato, a dir poco, lapidario:“Sì, questo è il 25esimo anniversario, quindi ovviamente è una festa. Ma forse non dovremmo vederla così. Forse dovremmo vederla come un funerale. Stiamo tornando indietro. Ci saranno gli spot pubblicitari”.
Perché Chase ha intonato il de profundis della tv di qualità?
Lo spiega chiaramente: “A chi si rivolge tutto questo? Agli azionisti? Mentre il genere umano va avanti, siamo sempre più orientati verso il multitasking. Il telefono è solo un sintomo ma chi può davvero concentrarsi? Tua madre potrebbe essere in fin di vita e tu sei lì accanto al suo letto d’ospedale a rispondere al telefono. Sembriamo confusi e il pubblico non riesce a mantenere la concentrazione, quindi non possiamo creare nulla che abbia troppo senso, richieda attenzione e necessiti che il pubblico si concentri. E a proposito delle piattaforme di streaming? La situazione sta peggiorando. Stiamo tornando dove eravamo. Quindi, è un funerale. Qualcosa sta morendo”.
Ma è davvero così? Davvero la tv di qualità è morta una volta per tutte? Abbiamo dei dubbi a riguardo.
Partiamo con una risposta semplice a una domanda complessa: cosa si intende, esattamente, per tv di qualità? Secondo il giornalista Gianmaria Tammaro, la “qualità” non implica una “ricercatezza fine a se stessa. Significa equilibrio. Tra domanda e offerta. Tra autorialità, intesa come firma riconoscibile e apprezzabile, e popolarità, intesa come diffusione e capacità di coinvolgere il pubblico più ampio”. Tutti d’accordo? Noi sì, e ci torneremo tra alcune righe.
Andiamo oltre: la tv di qualità, secondo gli standard riscontrabili tra i prodotti di spicco degli ultimi vent’anni, punta a un target tendenzialmente colto attraverso chiavi narrative dalla matrice cinematografica, eclettiche e diversificate per genere: in sostanza, quello che fece il presunto apripista della golden age seriale, I Soprano.
Perché presunto, e qua torniamo alle difficoltà nel definire fino in fondo l’età della nostra “vittima”?
Perché quel che si potrebbe dire a proposito dei Soprano, in onda tra il 1999 e il 2007, si potrebbe dire anche in riferimento a Twin Peaks (1990-1991), il primo vero spartiacque che offrì una nuova dimensione espressiva al mezzo televisivo. Con una sostanziale differenza: mentre il capolavoro di David Lynch rappresentò per certi versi un unicum per quasi un decennio, I Soprano, sospinti dall’audacia della HBO, diedero il là a un modello portato avanti continuativamente per quasi venticinque anni, trovando in Breaking Bad e in Better Call Saul dei degnissimi eredi spirituali.
Arriviamo allora a una risposta? Quante delle serie tv attualmente in circolazione rispondono ai canoni individuabili ne I Soprano?
Ha ragione Chase nell’affermare che l’avvento dello streaming e le nuove abitudini degli spettatori abbiano piegato quel tipo di visione? Solo per certi versi. E per dare supporto alle nostre perplessità, ci appoggeremo alla considerazione di Tammaro, più dinamica e funzionale nel circoscrivere una qualche verità a riguardo.
Prendiamo in prestito un’altra definizione. Se si ricerca su Google la parola “qualità”, emerge primariamente la risposta che segue: “Nozione alla quale sono ricondotti gli aspetti della realtà suscettibili di classificazione o di giudizio: buona, cattiva q.; frutta di q. scadente; assol., pregio, merito, dote: è un ragazzo pieno di q.; spesso contrapposto a quantità”. Perché è interessante in questo contesto? Perché evoca due variabili che gran parte dei principali dizionari italiani tendono a non includere: la “classificazione” e il “giudizio”. Non esiste, infatti, un’oggettività nella definizione di “qualità”: al massimo, una soggettività ben sorretta da parametri tendenti all’oggettività. Una soggettività dalla matrice scientifica, figlia di un’elaborazione attenta dei dati.
Ma chi giudica? Chi classifica?
Il problema, in tal senso, è uno su tutti: la valutazione dei critici è sempre stata più importante di quella del pubblico nel circoscrivere i confini della tv di qualità. E ha finito per innescare un cortocircuito in cui l’autoreferenzialità ha avuto spesso la meglio sui gusti degli arbitri ultimi della “disputa”: gli spettatori. Un cortocircuito sostanziale, tanto rilevante da aver condizionato a tratti i percorsi editoriali di diversi network: gli autori, allora, si sono concentrati sull’assecondamento dei critici prima ancora che del pubblico.
È un problema? Di per sé, no. Puntare in alto e realizzare dei prodotti “per pochi” ha elevato la statura della tv, regalandoci più di un capolavoro.
Ma quanto spazio c’è stato, per titoli del genere? Tanto, per almeno quindici anni. E ne abbiamo beneficiato un po’ tutti, arrivando a vivere una golden age segnata da produzioni memorabili che porteremo sempre dentro di noi. Ma ora le cose sono cambiate. La profonda crisi economica vissuta dai grandi player dello streaming sta facendo esplodere una bolla che la pandemia aveva camuffato dietro l’esigenza di avere un gran numero di serie tv a disposizione, e ora si presenta il conto. Ne abbiamo parlato a più riprese in diversi approfondimenti pubblicati negli ultimi mesi: la golden age è finita e siamo ora entrati in una fase molto diversa in cui la tv d’ultima generazione è costretta a guardarsi indietro per trovare soluzioni immediate.
Persino la HBO, alfiere della tv di qualità, ha dovuto cambiare linea, e le cancellazioni premature di Winning Time e Westworld sono una chiara testimonianza in tal senso. Cosa serve, oggi? Coinvolgere un pubblico quanto più ampio possibile attraverso prodotti quanto meno costosi possibili, evitando gli idealismi pindarici che hanno finito per mettere in difficoltà anche un colosso del calibro di Netflix.
Allora ha ragione Chase? La tv di qualità è morta e dobbiamo riabituarci a una televisione che ridiventerà la sorella minore del cinema?
Non lo pensiamo: se da un lato non è più il grande pubblico ad assecondare un grande autore (salvo alcune nobili eccezioni), dall’altra i grandi autori conserveranno una buona libertà espressiva. A patto che ci siano i presupposti per definire un prodotto trainante.
Tutto sta qua, quindi. L‘equilibro tra un’autorialità riconoscibile e la necessità di portare dentro un pubblico vasto è più sottile di un tempo. Ma non si è ancora spezzato sotto i colpi di una tv ormai affetta da una sindrome che ha colpito anche il cinema negli ultimi vent’anni, salvo poi aver mostrato dei segnali nella direzione opposta nella seconda fase post-pandemica: andare troppo sul sicuro con franchise logori e format ai titoli di coda.
Il panorama seriale attuale è, d’altronde, ricca di offerte di qualità. A partire dalle due migliori produzioni del 2023: Succession, conclusasi nei mesi scorsi, è una delle ultime figlie della grande tradizione della HBO, mentre The Bear sta portando avanti un percorso nobile inaugurato alcuni anni fa da FX, non senza audacia. Si pensi, in tale senso, ad altre due serie tv recenti che si sono inserite nel discorso: Reservation Dogs e Atlanta.
Continuiamo, pur facendo un torto ai tanti nomi nobili che non menzioneremo.
Apple Tv+, per esempio, ha puntato tutto sulla tv d’autore e il pubblico sembra se ne stia finalmente rendendo conto. Così come l’italiana Sky, l’unica in grado di dare una possibilità a una produzione straordinaria del calibro di Christian. La stessa Sky che aveva fatto altrettanto in passato con Romanzo Criminale, Gomorra, le serie di Sorrentino e tante altre. Potremmo andare avanti a lungo, ma non è necessario per avvalorare l’ipotesi: la tv di qualità si sta rinnovando e sta mutando forma, ma sembra non esser ancora destinata a una tragica fine.
Molti dei titoli citati, infatti, avrebbero occupato un posto di rilievo anche nell’era della golden age. E portano avanti una storia che sembra stia puntando sempre più su altro, pur non privandola dello spazio vitale.
Che dire, poi, delle due nuove produzioni di punta della HBO? House of the Dragon e The Last of Us meritano di rientrare nella definizione? Ancora è presto per averne la certezza, ma è evidente che l’ibrido portato avanti possa essere una soluzione al nostro dubbio iniziale: qualità sì, ma su basi solide. Possibilmente a costi ridotti, se non si hanno le spalle coperte e il core business non è da un’altra parte. Nessun azzardo, nessuna scommessa al buio: le due opere puntano dritte su una qualità vincolata alle certezze preliminari che due grandi franchise sorreggono. E che vengono sostenute da un mole media di produzioni meno ambiziose. altrettanto funzionali.
Si torna, allora, alla considerazione sull’autoreferenzialità: anche la tv di qualità, oggi, ricerca un pubblico trasversale e sfaccettato, non più ristretto a una cerchia colta dalle esigenze specifiche. Come avevano fatto, per dire, I Soprano, Breaking Bad e Better Call Saul, serie dal grande valore artistico capaci di coinvolgere un pubblico che include l’intellettuale quanto la casalinga di Voghera: per pochi, per tutti. Anche per chi ne ha colto solo in minima parte il valore. E lo stesso si può dire per le prime quattro stagioni di Game of Thrones, prima delle difficoltà affrontate nelle annate successive.
L’ha capito anche Netflix, negli ultimi tempi.
Dopo aver scommesso a lungo su una qualità incondizionata, costosa e non sempre fruibile dal pubblico di massa (le bellissime The Crown, Dark e Ozark, citandone tre), ora sembra aver imparato la dura lezione subita da 1899 e scommetterà sempre più su prodotti in qualche modo associabili a The Last of Us e House of the Dragon. L’imperativo sarà tenere alta la qualità dei prodotti di punta, senza per questo voler andare talmente in alto da non essere raggiungibile da un pubblico importante.
Si entra qua nella dimensione di una considerazione più arbitraria: Bridgerton, Mercoledì e Stranger Things non rientrano certo nella definizione canonica di tv d’autore, ma davvero non possiamo considerarle parte di un’idea alternativa di tv di qualità?
Secondo il parere di chi vi sta accompagnando in questa analisi, è possibile farlo. Pur con alcune riserve: non saranno mai dei capolavori inarrivabili, ma sono fatti abbastanza bene da restituire una certa dignità artistica allo streaming televisivo, rappresentando per questo il vero futuro prossimo del settore.
Chiamateli blockbuster d’autore oppure, per dirla con le parole del New Yorker, “cheeseburger gourmet”, ma il senso è ormai chiaro: salvo eccezioni che saranno sempre più rare – almeno per i prossimi anni – non ci sarà più il terreno per capolavori assoluti, ma si punterà decisi su prodotti specifici che avranno uno spazio mediatico maggiore. E che vivranno soprattutto grazie alla “quantità” delle serie ritenute meno “nobili”. Occhio, però: un prodotto mainstream, apparentemente meno qualitativo, funziona solo se fatto bene. E sarebbe giusto mettere in discussione la spocchia valutativa di chi bolla certi prodotti come “scadenti”.
La deriva qualitativa di Mare Fuori, dopo alcune stagioni ben fatte, ne è in qualche modo una testimonianza: si ricercano prodotti alla portata di tutti ma vanno fatti con tanto mestiere, curando il dettaglio anche laddove non è immediatamente percepibile dagli occhi meno attenti (o meno onesti nelle valutazioni globali). Un esempio, forse sorprendente per alcuni? Odio il Natale, “figlia ideale dell’algoritmo di Netflix”. Anche la fiction più semplice, d’altronde, non lascia alcuno spazio per l’improvvisazione, al di là della leggerezza del contenuto. E quando lo fa, porta inevitabilmente a un fallimento.
Riportiamoci in conclusione al funerale organizzato da David Chase, apriamo la bara e scopriremo di esser di fronte a un corpo che vive ancora.
Talvolta respira a fatica, ma c’è. E magari un giorno risplenderà di una luce rinnovata, come sembra stia succedendo al grande cinema dopo diversi anni di appannamento e franchise ormai saturi. Così come il cinema d’autore sta ritrovando la strada perduta, riportando in sala un pubblico che pareva esser ormai perso per sempre, anche la tv potrebbe affrontare nei prossimi anni un percorso simile. Non nei prossimi anni, in cui la strada sembra essere segnata (almeno per i grandi player), ma in futuro chissà.
Nel frattempo, potremo rifugiarci all’interno di nuove produzioni che perseguono la strada tracciata dai grandi maestri del passato prossimo. Sono pochi ma ci sono, e spesso non trovano lo spazio che meriterebbero.
La verità, come sempre, sta nel mezzo, ed è necessario diffidare da chi si avventura in considerazioni oltremisura drastiche. Gli stessi che hanno certificato, non senza miopia, il decesso di un movimento che guarda al presente con ambizioni diverse, ma che potrebbe portarci chissà dove nel segno della discontinuità.
Vogliamo crederci, con una consapevolezza radicata: il giudice ultimo, al di là dei soloni della materia, sarà sempre il pubblico. E il pubblico, se ben incentivato e incanalato nel modo più opportuno, risponderà sempre presente. La prima stagione di Breaking Bad, d’altronde, non fu accolta con grande entusiasmo dal pubblico di massa, piuttosto allergico al pensiero di dare un’opportunità a una strana storia con protagonista “il padre di Malcolm”, poi è andata come è andata.
Crediamoci, allora: quando un prodotto vale, emergerà sempre.
Ieri come oggi: il pubblico è cambiato, ma non è diventato scemo. E il successo che stanno ottenendo nell’ultimo periodo le audaci produzioni di Apple Tv+ lo dimostrano. Non si vive di sole Machiavelli, è vero. Ma magari tornerà il suo tempo dopo una manciata di Medical Dimension e una lunga lista di Occhi del Cuore. Anche loro non moriranno mai, ma rappresentano in qualche modo un “male necessario”.
1999-2023? Questa è, in definitiva, quello che leggeremo sulla lapide della tv di qualità? Non vogliamo pensarlo: questa storia già finita, forse, è appena cominciata. E noi, dal canto nostro, non ci sentiamo di escludere il ritorno. Mettete da parte Mozart: il suo tempo non è ancora arrivato. Forse non arriverà mai.
Antonio Casu