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Sex Education 3: la Recensione della (deludente) terza stagione

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ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste imbattervi in spoiler sulla terza stagione di Sex Education.

Parlare di sesso in modo consapevole e dettagliato, mettendo insieme un branco di ragazzini del liceo, una storia piacevole da seguire e i toni leggeri della comedy, sembrava una scommessa ardita e spericolata. Invece Netflix è riuscita a superarla a pieni voti. Sex Education è una delle migliori commedie prodotte dalla piattaforma negli ultimi anni. Audace e temeraria, la serie britannica creata da Laurie Nunn ha saputo sdoganare una tematica, quella del sesso, utilizzata da sempre in chiave comica, come strumento per creare delle situazioni esilaranti o come mezzo per ingarbugliare le relazioni amorose dei personaggi. Sesso come veicolo dunque, e mai come oggetto. In Sex Education, invece, la sessualità svolge un ruolo primario, da protagonista. Diventa addirittura soggetto, il fulcro attorno al quale ruotano tutte le vicende dei personaggi, il meccanismo che mette in moto l’azione. E che funge anche da ponte per trasmettere una serie di messaggi di non trascurabile importanza.

Le prime due stagioni dello show sono state un successo.

Sex Education è adatto per tutte le età (ok, magari per i minori di 14 anni farei attenzione) e mette d’accordo gli spettatori più disparati. È fondamentalmente un teen drama, ma sviscera in profondità e con estrema ironia questioni che stuzzicano l’interesse anche di chi adolescente non lo è più. Da venerdì è disponibile su Netflix la terza stagione – è entrata direttamente nella Top10 della piattaforma -, arrivata dopo quasi due anni di attesa. Il prodotto di Laurie Nunn, come tantissime altre produzioni, ha dovuto fare i conti con i ritardi dovuti alla pandemia. Per cui l’attesa per i nuovi episodi era tanta.

Ma com’è Sex Education 3?

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Facciamo innanzitutto un passo indietro per recuperare i pezzi lasciati per strada. Il finale della seconda stagione ci aveva lasciati col fiato sospeso su più di una questione: che ne sarebbe stato del rapporto tra Otis e Maeve dopo che Isaac aveva cancellato il messaggio lasciato in segreteria da Otis? La relazione Eric-Adam avrebbe avuto un futuro? Che ne sarebbe stato di Ola? Come avrebbe affrontato la gravidanza Jean Milburn? Queste e altre domande avrebbero dovuto trovare una risposta nella terza stagione e così è stato.

Otis l’avevamo lasciato come un adolescente ancora un po’ impacciato a letto, con la testa piena di complessi e tanta insicurezza mascherata sotto le vesti del terapeuta del sesso. Nei nuovi episodi l’abbiamo invece ritrovato alle prese con una relazione segreta con la ragazza più popolare della scuola, abile sotto le lenzuola – con un baffetto davvero discutibile a sporcargli il viso – e inaspettatamente disinteressato rispetto alle sorti clinica che lui e Maeve avevano fondato. Per Otis la terza stagione è stato un percorso di maturazione da una condizione di egoistico ripiegamento su se stesso al ritorno alla sua vera altruistica vocazione: quella di aiutare gli altri. E anche le sue relazioni si spiegano in questo senso: Ruby, egoistica e apparentemente frivola e superficiale, rappresenta la prima fase di transizione; Maeve, più altruista e disinteressata, incarna bene la seconda versione di Otis, il suo naturale punto d’approdo.

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Ma anche gli altri personaggi progrediranno lungo il cammino della terza stagione: lo farà Eric nella sua relazione con Adam e lo farà Aimee verso una maggiore consapevolezza di sé. Jackson Marchetti prenderà una sbandata per un genderqueer, Lily sarà costretta a mettere il naso fuori dal suo mondo fatto di alieni, peni e vagine parlanti, Jean proverà a rimettere ordine nella sua vita di madre alle prese con l’arrivo del secondo figlio. Ed è proprio alle madri che in questa stagione è dedicata un’attenzione particolare. Non solo a Jean Milburn, donna trasgressiva rimasta incinta di un uomo con cui ha paura di impegnarsi. Ma a tutte le madri dello show: la mamma di Adam che riscopre la propria sessualità – e la propria felicità -, quella di Maeve che inizia a prendere coscienza dei propri sbagli, quella di Eric che non vuole più mentire a se stessa. Ma anche alle mamme che non ci sono più – quella di Ola – e a quelle che vorrebbero tanto diventarlo ma non ci riescono – la preside Hope (Jemima Kirke di Girls).

Sex Education in questa stagione esplora molto anche il rapporto genitori-figli, adulti-adolescenti, e prova a portare a galla l’incomunicabilità che molto spesso li allontana e li spinge a trincerarsi dietro le proprie invalicabili barricate.

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È quello che è successo anche a Michael, rimasto senza lavoro e senza famiglia e costretto a chiedere aiuto allo spocchioso fratello maggiore Peter Groff (interpretato da Jason Isaacs, il Lucius Malfoy di Harry Potter). Il processo di maturazione più importante lo attraversano proprio lui e suo figlio Adam. L’interpretazione di Connor Swindells non è niente male e il personaggio di Adam è forse uno dei interessanti di tutta la serie. Ma al di là del percorso della trama, che si dipana nella stratificata scrittura di questa terza stagione, ci sono almeno un paio di punti che non hanno convinto come ci si sarebbe aspettati. Certo l’hype era un po’ calato rispetto alle precedenti stagioni: l’effetto novità si era ormai esaurito e continuare a sorprendere avrebbe richiesto uno sforzo creativo maggiore.

La sensazione è che dopo due stagioni di livello, sia arrivata la bonaccia anche per Sex Education.

Troppi filoni secondari, troppe scene riempitive, episodi che sembrano star lì solo per allungare un po’ il brodo. Lo show è inevitabilmente andato incontro ad una uniformazione, si è calato negli standard della piattaforma e ha smesso di osare come aveva fatto brillantemente nelle passate stagioni. Le new entry hanno fallito l’esordio: la preside Hope sembra una sorta di Dolores Umbridge contro cui è facile attirare le antipatie degli spettatori. Il suo personaggio serve a mobilitare la lotta per l’emancipazione e la difesa dei propri diritti da parte degli studenti, ma alcune trovate risultano un po’ grottesche e assurde. E anche la cantante Dua Saleh nel ruolo di Cal, studente queer della Moordale, non sembra cogliere nel segno. È tutto un lascia e prendi che dopo un po’ affoga la trama e annoia.

Lo spirito irriverente e autoironico che aveva rappresentato un punto di forza nelle prime stagioni lascia il posto a un ritmo più compassato, meno originale, innovativo e coraggioso.

La storia ne risulta eccessivamente svilita – una babele di filoni secondari che non si riesce ad approfondire del tutto – e alcuni personaggi estremamente fiaccati: è il caso di Ola, che spunta qua e là nel racconto senza mai affrontare un percorso coerente. Ma anche in parte di Jean Milburn e della stessa Maeve. Inoltre, l’impressione che si ha guardando gli episodi della terza stagione è che si voglia mettere tanta carne al fuoco. Ma conviene? L’aggiunta di un personaggio queer, ad esempio, finisce col rivelarsi fine a se stessa: una scelta riempitiva, un modo come un altro per esplorare tutte le diversità possibili. Ma era una scelta dettata da esigenze narrative o suona piuttosto come una presa di posizione “politica”?

Il punto è che Sex Education avrebbe davvero potuto fare di più, concentrandosi sulle esigenze della sua storia e dei suoi personaggi. Ma nonostante le belle atmosfere dei college britannici e il tono leggero che contraddistingue sempre lo show, la terza stagione fallisce in parte la sua missione originaria. Un campanello d’allarme che dovrebbe spingere gli autori a fermarsi alla terza (comunque piacevole) stagione, senza andare a snaturare ulteriormente la storia con nuovi episodi che non farebbero altro che uniformarla alle centinaia di altre serie dello stesso argomento. Sex Education è ancora in tempo per fermarsi.

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