Le indagini più problematiche sono quelle che esplorano l’anima.
Circa un secolo fa ce lo facevano presente gli studi di Freud; oggi ce lo raccontano le vicende di Sherlock Holmes e il legame col suo fido braccio destro John Watson.
Senza alcuna presunzione emotiva, ricalcando anzi i tratti del freddo velo di sociopatia ed alimentando il flusso esogeno (proveniente dall’esterno) nelle dinamiche della serie.
Il tema è esattamente questo: Sherlock è una narrazione esogena, nella quale tutto proviene ed esiste per azione esterna.
Sherlock Holmes possiede, nella contraddittorietà delle sue abilità innate, un pensiero tendenzialmente empirista: tutto ciò che è frutto del suo lavoro è risultato di pattern di informazioni esterne, input e messaggi di cui ha esperienza, recepiti e modulati per trarre informazioni precise.
È convinto che nessuna nozione di base allinei il suo intuito (lui stesso, senza imbarazzo, affermerà che la cultura è un pattume di informazioni inutili), e sa per certo che le supposizioni vengono edificate sempre in maniera, appunto, esogena; derivanti dall’esperienza.
Sherlock è un convinto empirista pur nascondendo in sé caratteristiche innate.
Perfino il protagonismo di Sherlock Holmes, quello proverbiale ma anche arrogantemente apostrofato dal detective stesso, è posto esterno a sé e risiede paradossalmente nel comprimario John Watson.
Si tratta di una struttura controversa, ma che si spiega nelle dinamiche del loro rapporto.
Alla base dei conflitti teorici, nel campo delle scienze umanistiche, c’è la rinomata diatriba tra innatisti ed empiristi.
Un confronto che resta ad oggi parzialmente irrisolto, e che vede lo psicologo John Broadus Watson essere stato il capostipite della corrente empirista grazie agli studi che hanno sancito la nascita del comportamentismo.
Sulla base dell’omonimia, solo fortuita (è strano dover dire che nel mondo “nasceva prima Sherlock, poi il comportamentismo”), capiamo che se Sherlock (pur travestendosi da empirista) è l’esempio vivente di innatismo, John Watson è indubbiamente la parte empirista di una coppia che forma un’antinomia fertile: il pragmatico dottore è l’emblema della conoscenza basata sull’esperienza, sulla dottrina e sull’errore (quello che Sherlock contrariamente non è in grado di accettare), facendo dello studio il principio attivo della risposta.
È sugli errori che Watson ha costruito la sua stabilità; è sulla nivea impeccabilità che Holmes ha costruito le sue incertezze.
Secondo quest’ottica, il protagonismo di Sherlock non può prescindere dalla figura di John Watson, che si pone inevitabilmente come la base di partenza del pensiero di Sherlock: il modus operandi della coppia è il disegno umano perfetto di quello che il padre del cognitivismo John B. Watson definì il “modello S-R”, ossia “stimolo-risposta”.
Watson è lo “stimolo” di Sherlock Holmes, il quale è ineccepibilmente la “risposta”.
In un certo senso, di pari passo con l’idea cognitivista e la necessità di abbandonare l’indagine filosofica per studiare il comportamento, l’azione di Watson è utile a scongiurare quell’aura di “trascendentale” che in Holmes sembra voler molte volte prendere il sopravvento.
E no, se il vostro cinismo dovesse spingervi a ricollegare tutto il discorso del comportamentismo al fatto che Watson rappresenti “il cane di Pavlov” di Sherlock, siete solo persone molto cattive.
La mente di Sherlock, in questo assetto, si configura come la rinomata “scatola nera” (“black box”), che riceve gli stimoli esterni che Watson è in grado di apprendere per semplici come sono, e scomporli ponendoli alla disponibilità del lavoro ipotetico-deduttivo di Sherlock.
Tutto ciò funziona in maniera semplice per quanto naturale, ed è l’emblema di un’intera corrente di pensiero.
Col senno di poi, immaginare uno Sherlock Holmes senza un John Watson sarebbe come pensare ad un uomo per il quale “attendere il momento giusto” vorrebbe dire attendere per sempre, in attesa dello stimolo che produca la risposta.
Così, nell’indagine finale, quella che inevitabilmente è costruita per esplorare l’anima, John Watson incarna il contesto emotivo meno apparente ma fondamentale, quello di cui Sherlock non si è mai realmente accorto, la cui coscienza traspare solo sottilmente in una delle battute dell’ultima recente stagione, quando impone a Mycroft la presenza di John durante un discorso di famiglia («È una questione di famiglia» – «È per questo che lui rimane»).
Euros è la risposta al contesto emotivo, ma John ne è sempre stato lo stimolo, l’esistenza latente di cui non ci si accorge in quanto perfettamente funzionante; ed è ciò che fa Sherlock, non badando (quasi) mai pienamente alla sua efficienza.
Il contesto emotivo edificato da John Watson per Sherlock è qualcosa di decantato, cristallino e pertanto quasi impercettibile.