Cosa ci viene in mente quando sentiamo qualcuno pronunciare: “la donna“? Mentre per alcuni questa potrebbe essere semplicemente un’affermazione generica, per i fan di Sherlock Holmes è invece un’affermazione estremamente specifica. Quella donna non può essere altri che Irene Adler. L’unica antagonista femminile, nei racconti di Sir Arthur Conan Doyle, capace di battere il grande detective Sherlock Holmes.
Per Sherlock Holmes lei era LA donna. Raramente l’ho sentito riferirsi a questa persona in altro modo; ai suoi occhi ella primeggiava su tutte le altre e le oscurava. Non si può dire che provasse qualcosa di simile a un innamoramento verso questa Irene Adler, dal momento che tutte le emozioni e in particolare l’amore erano aborrite dalla sua mente fredda, precisa e mirabilmente equilibrata. […] Eppure per lui non c’era che una donna, e quella donna, sebbene di dubbia e discutibile memoria, era appunto Irene Adler.
Questo mirabile avversario compare un’unica volta nel Canone, all’interno del breve racconto “Uno scandalo in Boemia” del 1891 in cui Sherlock non riesce a recuperare una foto ritraente il re di Boemia in compagnia appunto di Irene Adler, perché sopraffatto dalla stessa Adler. Nonostante questo suo piccolo ruolo molte interpretazioni del 21° secolo la includono nelle loro storie come una figura dominante. Capace di catturare l’immaginario collettivo al pari dello stesso professor Jim Moriarty. Non può esserci Sherlock senza Watson, non può esserci Sherlock senza Moriarty e, come abbiamo capito, non può esserci Sherlock Holmes senza Irene Adler.
Un campanello suona.
Nell’episodio “A Scandal in Belgravia” di Steven Moffat e Mark Gatiss Irene Adler, splendidamente incarnata da un’ammaliante Lara Pulver, è ancora una volta una criminale e, al contempo, un potenziale interesse amoroso per lo Sherlock di Benedict Cumberbatch.
Un campanello suona.
Guarda quegli zigomi. Potrei tagliarmi schiaffeggiando quella faccia. Vuoi che ci provi?
La meravigliosa scena che fa da cuore a Scandalo a Belgravia è indubbiamente l’incontro tra Sherlock Holmes e Irene Adler. Un incontro che ha il sapore di una lotta. Una lotta che mischia con una raffinata eleganza sensualità e razionalità. Il campo di battaglia è un divano, l’arena una stanza, il pubblico Dottor Watson. E noi, ovviamente. L’entrata in scena di Irene ha il sapore mitologico di una divinità greca. No, non per la nudità espressa, ma per la consapevolezza in se stessa. La serena e serafica consapevolezza del corpo di cui solo lei è padrona. Travestimento e arma.
La reazione di Sherlock è una resa. Non incondizionata, certo. Ma comunque una resa. Lo scambio di battute sul concetto stesso di travestimento come autoritratto segnano nuovamente la posizione dominante di Irene sulla situazione. E su Sherlock.
Ma non è la nudità che mette in difficoltà. Questo può farlo con noi, come con il povero dottor Watson, per Sherlock è solo un fugace contropiede alle sue intenzioni. Lo esprime sapientemente la stessa Adler, togliendogli il collarino ecclesiastico e dicendo: “Ora siamo tutti e due nudi“. Irene sa bene che non è quella la sua arma vincente. Solo uno stratagemma, nulla più che una suadente mossa Kansas City. È ciò che non vedi che fa impazzire la tua immaginazione. Questo vale per Sherlock che non riesce a trarre nessuna deduzione dall’osservazione della donna, ma vale in modo diametralmente opposto per noi. Non si vede nulla in quella scena. Non il seno, né il sedere, né alcuna altra intimità eppure, neanche fossimo a fianco del buon dottore, compensiamo ogni fotogramma mancante con la nostra immaginazione.
È uno specchio perfetto per Sherlock ed è uno specchio perfetto per noi. E a volte non vogliamo guardarci allo specchio. La nudità di Irene mette a nudo Sherlock, lo porta su un piano dove non si muove con la consueta esperienza. E Mycroft non rinuncerà certo a farglielo notare.
La sfida tra i due ha l’epicità placida di una partita a scacchi. La bellezza tagliente di Irene è al contempo scudo e spada. Ma il piano di manovra è squisitamente intellettuale. Centoventi secondi, fino alla resa del dottor Watson che invita la Adler a coprirsi con un tovagliolo, sono il tempo per cui dura il vantaggio di Irene. Due minuti ammalianti in cui il controllo, in fondo è una dominatrice, è perfettamente e saldamente nelle sue mani.
Questo tempo funziona in modo perfetto per due semplicissime ragioni. La prima è che Irene Adler è articolata, affascinante e trasuda fascino sessuale, ma ogni singola interazione avviene su uno scontro di intelletti. La mente offusca e nasconde i corpi più degli abiti stessi. Non c’è spazio per la volgarità né un reale scandalo in ciò che vediamo, ma solo al limite in ciò che immaginiamo. La seconda è che, come detto, la regia costruita da Paul McGuigan non lascia spazio a nessuna immagine esplicita. Tutto ruota attorno a due titani della razionalità.
La scelta di abbigliamento, o meglio la sua mancanza, allontana Sherlock dal suo solito ritmo e fa sì che non riesca a fare le sue consuete deduzioni. Irene Adler è una femme fatale capace di ottenere il controllo completo su Sherlock in una frazione di secondo usando il suo corpo; la fonte del suo potere. L’impatto sul pubblico, la nostra soggezione, non avviene perché John Watson non riesce a concentrarsi a causa della nudità di Irene, è una reazione umana. Ma ciò che più ci colpisce è che Sherlock sia sconcertato. Adler si colloca in una posizione di superiorità e lei lo sa. Questo è ciò che la rende straordinaria sia agli occhi di Sherlock che ai nostri.
Questa scena perfetta però viene incrinata, nella gestione dell’episodio, dalla relazione e subordinazione del personaggio di Irene a quello di Moriarty.
D’altra parte le emozioni, come i sentimenti, sono un difetto chimico della parte che perde. Irene Adler non ha problemi con la nudità o la sua sessualità, eppure alla fine nel confronto con Sherlock si fa ammaliare dalla sua intelligenza. Brainy is the new sexy.
Sebbene Irene Adler superi Sherlock, non riesce a farlo in base alle sole capacità cognitive. Senza Moriarty e il suo intelletto impeccabile, non sarebbe nemmeno viva. Questa risulta essere la verità innegabile quando alla fine viene sconfitta a causa della sua relazione romantica con Sherlock. La deduzione finale di Sherlock Holmes va contro la base stessa del personaggio di Irene Adler. Lei è “la” donna perché inganna con successo Sherlock Holmes. Invece, nello Sherlock di Gatiss e Moffat, è proprio Sherlock Holems che alla fine l’ha effettivamente salvata e ha ingannato tutti nel far credere che avesse trovato una morte brutale. In questo modo Irene Adler diventa semplicemente una damigella in pericolo; una donna che senza l’assistenza di Jim Moriarty e Sherlock Holmes non sarebbe in grado di sfuggire alla mano fredda della morte.
Alla fine, quindi, tutto il suo predominio sensuale e disarmante si rivela in qualche modo unicamente una facciata orchestrata da un uomo intelligente. Che peccato sminuire così l’intuizione di Doyle. Questo però non annulla completamente la non convenzionalità ed eccezionalità di un personaggio come Irene Adler, ma sicuramente le sottrae parte di quell’ammaliante, sensuale e disarmante dominio che per due sublimi minuti hanno saputo annichilire lo stesso Sherlock Holmes e noi con lui.