Vai al contenuto
Home » Sherlock

Mycroft Holmes, più umano di quanto voglia apparire

Sherlock
Ma prima di continuare con la lettura abbiamo entusiasmanti novità da condividere con te. A breve sarà disponibile Hall of Series Plus, il nostro servizio in abbonamento che ti permetterà di accedere a moltissimi contenuti esclusivi e in anteprima.

Inserisci il tuo indirizzo email e clicca su ‘Avvisami’ per essere notificato quando Plus sarà disponibile.

* campo obbligatorio

Se una delle storie migliori del passato entra nel presente in una forma totalmente nuova ma senza perderne l’essenza originaria, il risultato non può che essere vincente. Sherlock rientra in questa descrizione, con quella Londra contemporanea in cui si respira l’atmosfera dei tempi che furono, e la sua ottima riuscita è merito anche dei meravigliosi personaggi che la popolano, in primis il protagonista. Ce n’è uno, però, a cui non pensiamo istintivamente quando parliamo di questa serie tv, ma che va ricordato perché è più importante di quanto crediamo. Perché non esisterebbe il detective che tutti amiamo senza il suo fratellone, Mycroft Holmes. Colui che, inconsciamente, cercherà di emulare per tutta la sua vita.

Dato che la natura della narrazione vuole che stiamo dalla parte dell’eroe e siccome il rapporto tra i fratelli è antagonistico, ci schieriamo con Sherlock. Insomma, non solo Mycroft è una delle poche persone a farlo sentire intellettualmente inferiore (cogliendo ogni occasione per farglielo notare), ma controlla ogni suo minimo movimento e spesso appare moralmente compromesso – soprattutto a causa della sua carica politica. La serie, poi, non ci fornisce nessun motivo plausibile perché uno come Mycroft Holmes dovrebbe piacerci. È distaccato, freddo, potente, arrogante, difficile da comprendere, misterioso. Eppure, per questo, terribilmente affascinante.

Perché la verità dietro ogni gesto e parola del personaggio di Mark Gatiss è molto più complicata di quella che appare in Sherlock.

Sherlock

Fin dal primo episodio, infatti, dimostra di tenere al suo fratellino, anche se spesso supera i limiti, come quando offre a John Watson dei soldi per spiarlo. Lo esprime apertamente nelle puntate successive con frasi del tipo: “Mi preoccupo per lui costantemente”, “Ci sarò sempre per te” o “La tua perdita mi spezzerebbe il cuore”. Non riesce, dunque, a seguire il proprio consiglio, quello del non affezionarsi mai alle persone per non soffrire. Lo dice al minore degli Holmes, consigliandogli di non lasciarsi coinvolgere emotivamente dalla morte di Irene, ma lo sta dicendo anche a sé stesso: ciò è sottolineato dalla pausa significativa tra la pronuncia delle parole e quella del nome del fratello.

Ma quanto deve aver sofferto una persona per consigliare una cosa così? Per chiudersi a riccio, non far entrare più nessuno e nascondersi dietro un sarcasmo pieno di dolore? Allora, capiamo che Mycroft Holmes non è un uomo di ghiaccio e che, in fondo, un cuore in quella cavità toracica ce l’ha.

In A Scandal in Belgravia è ben evidente. Dà al fratello un caso di cui occuparsi e va a trovarlo dopo la sparatoria da Irene, perdendo la sua maschera di calma quando la signora Hudson gli lancia una frecciatina sulla famiglia, perché per lui non c’è niente di più importante. Infatti, si incolpa del perché degli assassini della CIA stiano cercando Sherlock e John Watson e si scusa per aver sottovalutato l’astuta e sensuale Irene. Inoltre, è disposto a danneggiare la sua carriera e la sua posizione per impedire alla donna di smascherare il giovane Holmes come la fonte della fuga d’informazioni. Il suo sguardo in quelle occasioni dice più di mille parole. E il detective comprende quello che Mycroft Holmes ha fatto per lui, chiamandolo fratello dopo aver digitato il codice per sbloccare il cellulare di Irene.

Un piccolo riconoscimento, incredibilmente commovente. E non è l’unico.

Nonostante la freddezza, il sarcasmo e la trascuratezza con cui lo tratta, il detective sa di poter contare sempre su di lui e si affida a Mycroft Holmes quando è nei guai, non solo chiedendogli aiuto, ma soprattutto immaginandolo nel suo Mind Palace: ad esempio, il personaggio di Mark Gatiss lo guida nello scoprire che l’uomo di Mayfly era presente al matrimonio di John Watson e stava pianificando un omicidio; lo conduce verso Barbarossa per calmarlo quando Mary gli spara e, soprattutto, gli salva la vita facendogli comprendere che “la pistola non è importante” quanto la caduta.

Perché, in fondo, Mycroft è davvero l’unico che può capire Sherlock, essendo esattamente come lui.

E possiamo sentire il suo cuore spezzarsi in mille pezzi nel momento in cui capisce che il fratello ha ricominciato a drogarsi (ed è lui stesso che ce lo fa capire mediante il suo continuare a ingrassare nell’episodio speciale), quando chiede quasi con le lacrime agli occhi a John Watson di occuparsi di lui o urla terrorizzato ai cecchini di non sparargli. A proposito del primo punto, c’è una scena significativa in The Abominable Bride: dopo che Sherlock strappa l’elenco delle droghe che ha preso e se ne va, l’Holmes di Mark Gatiss lo raccoglie e lo mette nel taccuino.

Questo riassume il rapporto dei due fratelli: il minore agisce in modo avventato, mentre il maggiore rincolla insieme i pezzi. Lo ha sempre fatto, fin dall’infanzia e lo vediamo in The Final Problem. Un episodio brutale nei confronti di Mycroft, dove la sua immagine d’onnipotenza si sgretola e Sherlock capisce che anche lui è umano; ma importante perché rivela il loro reciproco e genuino affetto.

Sherlock

Certo, il personaggio di Mark Gatiss non ha gestito al meglio la situazione di Eurus (e non è la prima volta se consideriamo Moriarty). Le sue intenzioni, però, erano buone sia verso l’Inghilterra che soprattutto nei confronti della famiglia, perché voleva solo proteggerla. Ne ha sollevato i membri da ogni responsabilità, addossandosene tutto il peso, e si sarebbe fatto uccidere dal fratellino pur di evitargli di ammazzare il suo migliore amico, cercando anche di rendergli le cose più facili. Eppure tutti lo incolpano, lo insultano, lo danno per scontato: prima il detective, urlandogli in faccia che John Watson è di famiglia quando per lui raramente aveva espresso un sentimento simile; poi dalla madre che si rivolge al figlio più piccolo, che non si è mai preso la responsabilità di nessuno in vita sua (del resto, la signora Hudson gli prepara ancora cibo e tè), per consigli su Eurus. Così com’è crudele quando Sherlock lo difende, dicendo “Ha fatto del suo meglio” , e sua madre risponde: “Allora è molto limitato”.

Mycroft non sarà perfetto e nemmeno l’essere umano più amabile, ma ha sacrificato la sua vita e ha rischiato il lavoro per prendersi cura degli altri all’età in cui doveva solo preoccuparsi che i suoi figli venissero ammessi all’università. Non possiamo far a meno di chiederci da quanto tempo i suoi genitori hanno fatto questo, caricando grandi responsabilità sul maggiore, non considerandolo mai abbastanza. Almeno alla fine, Sherlock riesce a comprenderlo, chiedendo a Lestrade di prendersi cura del Mycroft Holmes di Mark Gatiss, perché “non è forte come crede di essere”.

È il riconoscimento di tutto quello che il fratellone ha fatto per lui. Perché non ci sarà mai davvero un grazie, ma è impossibile negare l’amore fraterno dietro i loro continui litigi. Ed è meraviglioso perché, come dice Mark Gatiss: “Quello che mi piace di più della relazione tra Sherlock e Mycroft è l’antagonismo mescolato con genuina preoccupazione. Sembra un vero e proprio rapporto di famiglia!”

E non potremmo essere più d’accordo, ringraziandolo per aver onorato al meglio questo affascinante personaggio.