C’è sempre un momento in cui si capisce esattamente quanto potrebbe valere davvero una serie tv. Una serie tv come tante altre, magari. Oppure una serie tv incapace di rispondere alle aspettative, se non addirittura brutta. Sennò, una serie tv bella. Bella, bellissima o straordinaria. Speciale, in una parola. Quel momento può arrivare al termine della prima stagione o nel mezzo, chissà dove. Quando la costruzione è lenta, persino oltre nelle stagioni successive: la lentezza, d’altronde, può essere un valore prezioso. Se si parla di Shōgun, invece, quel momento è arrivato subito. Pochi minuti di visione e tutto è stato chiaro: Shōgun è una serie tv speciale. Pochi episodi e ci siamo sbilanciati oltre: un instant cult.
L’idea non ha mai lasciato spazio a grandi dubbi: Shōgun, concepita come miniserie, ha sempre avuto tutti i crismi per essere la serie dell’anno, nel 2024. E così è stato: la migliore, per distacco. Oltre l’altrettanto bella The Penguin, l’estro autoriale di Ripley o l’impatto emotivo dirompente di Baby Reindeer, il gradino più alto del podio ha avuto un padrone indiscusso. Sì, ma perché? A distanza di un anno dalla prima messa in onda, avventuriamoci ancora dentro Shōgun, in modo da coglierne fino in fondo il valore tematico, espressivo e narrativo attraverso alcuni tra i punti più importanti. Quando si parla dei titoli degni della golden age televisiva, d’altronde, è sempre necessario andare a fondo ed entrare nel dettaglio.
Il realismo di Shōgun
Credits: Disney+
Uno dei principali punti di forza della serie è riscontrabile nella sua vocazione fortemente realistica. Se da un lato sono numerose le serie tv storiche occidentali che in precedenza avevano affrontato il Giappone attraverso le prospettive più disparate, Shōgun ha il merito gigantesco di aver trasferito sullo schermo lo spirito del romanzo omonimo da cui è tratta, pubblicato da James Clavell nel 1975. Un’esperienza immersiva che rifugge le approssimazioni, è allergica agli stereotipi e cerca l’essenza di un mondo attraverso un punto di vista che mira a restituire con fedeltà l’essenza di quel mondo. L’operazione, già portata a termine con ottimi risultati da una prima miniserie del 1980, è stata valorizzata ancora di più dalla produzione del 2024. Shōgun è una serie pienamente inserita nel nostro mondo e mira ad attualizzare i temi secondo le sensibilità attuali, senza snaturare in alcun modo il racconto originario.
La narrativa è così improntata su un punto di vista realmente nipponico (lo spiegheremo meglio nel prossimo punto). E si poggia su un linguaggio fedele che usufruisce delle potenzialità dell’idioma giapponese, centrale e totalizzante come mai si era visto in un prodotto statunitense.
Il giapponese, così, è finalmente messo in scena con credibilità e non più finalizzato alla mera crescita estetica del prodotto. Parallelamente, si è dato vita a un intreccio con basi contestuali solide e fedeli a quello che avremmo visto nel Giappone di inizio Seicento, mentre la cura maniacale d’ogni dettaglio ha garantito un’esperienza completa e appagante. Dai costumi alle armi utilizzate, passando per gli arredamenti degli interni e la ricostruzione delle ambientazioni, niente è lasciato al caso. Al di là di alcune sbavature riscontrabili qua e là, Shōgun ha capitalizzato il mastodontico sforzo produttivo di un progetto dalla portata decennale, finalizzato da una regia che gioca coi richiami (Akira Kurosawa è sempre un riferimento assoluto) e si spinge oltre il citazionismo con una personalità raffinata ma non invadente.
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