Tre stagioni, trentatré episodi. Numeri abbastanza simbolici, per i cristiani, non c’è che dire. Tre come la Santa Trinità, trentatré come gli anni di Cristo quando venne crocifisso, secondo i Vangeli. Peccato che entrambe le cose abbiano ben poco da spartire con Shtisel, la serie israeliana distribuita da Netflix, vincitrice di otto Awards of the Israeli Television Academy tra il 2013 (anno in cui è andata in onda la prima stagione in Israele su yes Oh) e il 2020.
Shtisel, creata e scritta dal duo Ori Elon (già creatore, tra le altre cose, di The Attaché e The Conductor) e Yehonatan Indursky (già creatore di Autonomies, in collaborazione proprio con Elon)e diretta da Alon Zingman (regista di The Conductor e di Dusk) racconta le avventure e disavventure di una famiglia haredi (altrimenti conosciuta, seppure non correttamente, come ultraortodossa), gli Shtisel appunto, residenti in un quartiere di Gerusalemme, Geula, a quanto pare privo di internet. Un racconto che assomiglia molto a un viaggio, di quelli che ci permettono di scoprire cose nuove e renderci più ricchi culturalmente.
Chi sono gli Shtisel? Sono una numerosa famiglia ebrea la cui struttura generazionale piramidale è rappresentata, alla punta, da Malka, l’anziana nonna ed ex matriarca, il cui figlio, Shulem, un gradino sotto, è rabbino e insegnante in un heder, una sorta di scuola elementare privata molto esclusiva dove vengono insegnate, in maniera molto rigida, la lingua ebraica e l’ebraismo. Sotto di lui, un gradino più in basso, i quattro figli: Zvi Arye, figlio maggiore, Giti, secondogenita, Racheli terzogenita e Akiva, figlio minore. Attorno a loro ruota un mondo composto da zii, mariti, mogli, cugini e nipoti. Una umana moltitudine ricca di sfaccettature e contraddizioni che rende molto interessante la visione di Shitsel poiché non si tratta della solita, stereotipata, serie famigliare, seppure con una ambientazione alquanto originale come quella degli ebrei haredim in una città affascinante come la moderna, ma dai richiami antichi, città di Gerusalemme.
E cosa fanno gli Shtisel? Niente di particolare. Vivono cercando di sopravvivere ai drammi che accadono loro, come qualsiasi altra persona al mondo. Amore e odio, vita e morte. Niente che non sia già stato scritto oppure messo in scena.
Allora perché Shtisel è stato un successo planetario tanto da aver creato una sorta di shtisel-mania anche qui in Italia? Perché, anche un po’ in maniere voyeuristica, apre le porte a un mondo quasi totalmente sconosciuto come quello degli ebrei haredim svelandone la maniera di vivere, così incredibilmente lontana dalla nostra e, per questo, suscitando nello spettatore un incredibile senso di attrazione culturale. Shtisel, infatti, perfettamente scritta, interpretata e girata, ci permette di conoscere in maniera più approfondita una cultura molto complessa. Un cultura millenaria le cui origini risalgono al IX secolo dopo Cristo che va ben oltre le tragiche vicende di cui tutti siamo a conoscenza. Una cultura con le sue rigidità, certo, che viene conservata e protetta dai suoi membri con estrema attenzione e cura e che permette loro di essere fraternamente coesi ovunque nel mondo.
Shtisel, che pure è un adattamento televisivo e come tale si prende delle licenze, è stata in grado di sollevare il pesante tendone che nasconde agli occhi del mondo una comunità molto piccola (si parla di circa 1,5 milioni di individui sparsi nel mondo, principalmente in Europa, Stati Uniti e Israele). Gli haredim, infatti, sono un gruppo dentro il quale sono presenti altri rami dell’ebraismo ortodosso (quello che si attiene maggiormente agli insegnamenti dei testi sacri) i quali hanno in comune tra loro la severità della pratica religiosa e dello studio della teologia; un’idea particolare della famiglia nella quale l’uomo è uno studioso zelante e la donna si occupa di portare avanti la famiglia, per altro numerosissima; l’avversione verso la tecnologia e, generalmente verso tutte quelle che sono le espressioni artistiche dell’essere umano; e, soprattutto, la ricerca dell’isolamento dal mondo esterno (tanto da non riconoscere, per esempio, lo stato di Israele come stato in sé ma solo come Terra Santa).
In questi pochi e non certo esaurienti dettagli c’è già moltissimo di Shtisel e della sua incredibile storia e cultura. C’è l’anziana madre, Malka, il cui ruolo di matriarca è ormai finito e, non avendo più una successione femminile che si occupi di lei poiché la nuora è da poco deceduta, viene portata in una casa di ricovero per anziani dove scopre, per la prima volta nella sua vita, la televisione. Uno strumento osceno, secondo il figlio e il nipote più grande, uno strumento del demonio. Uno strumento che porterà sventura e vergogna, come se non ce ne fossero già abbastanza, sulla loro famiglia. Il figlio e il nipote, Shulem e Zvi Arye, che rappresentano proprio in tutto e per tutto il maschio haredi, cercheranno di tutto per impedire alla madre e nonna di perdere la retta via e infrangere la legge (religiosa, sia chiaro) ottenendo dall’arzilla vecchietta, osservante e praticante tanto quanto loro, una risposta intrisa di sano e arguto jewish humor: Beautiful non può essere così male, religiosamente parlando, considerato quanti figli facciano i protagonisti!
Shtisel è come un lungo, affascinante feuilleton di fine secolo. Il Diciannovesimo, però. Capitolo dopo capitolo descrive con estrema dovizia di particolari, ma al tempo stesso in maniera molto delicata, quelli che sono, sostanzialmente, i vincoli famigliari, in primis quelli tra genitori e figli. Abbiamo accennato a quelli tra madre e figlio (e nipote), entrambi non più giovanissimi eppure, come spesso accade, con la persona anziana capace ancora di scoprire cose nuove e di stupirsi della bellezza del mondo che non è poi così malvagio. E il figlio che non soltanto deve avere a che fare con la madre ma pure con la propria progenie. In particolar modo deve confrontarsi con Akiva che, dal balcone di casa sua, sembra voler guardare oltre i caseggiati del suo quartiere.
Il rapporto tra Shulem e Akiva è, probabilmente, il più interessante di tutta la serie. Akiva è un giovanotto che vive perennemente con i piedi in due scarpe diverse: la vita che il padre vuole per lui e quella lui sogna per sé.
Akiva è un artista, un pittore. E questo, come accennato, è assolutamente fuori luogo: le leggi (religiose) vietano le arti rappresentative poiché il secondo comandamento vieta di rappresentare cose in cielo, in terra, in acqua e sotto terra. Akiva sa bene di avere un dono e, contemporaneamente, sa, in cuor suo, di non voler dare un dispiacere al padre, che invece lo vede bene come rabbino. Questo crea naturalmente incredibili conflitti famigliari che vengono delicatamente affrontati senza mai cadere nell’ovvietà, riuscendo quasi a tenere sospeso il giudizio finale, verso una parte o verso l’altra.
Ma Akiva non è soltanto un artista. È un sognatore, un romantico che finisce per innamorarsi della donna sbagliata, ovviamente. La quale è più grande di lui, già due volte vedova e con due figli. Shulem non è d’accordo: per lui vede una donna più giovane, più pia, probabilmente illibata. E qui entra in scena un altro personaggio molto interessante della cultura haredi: il sensale di matrimonio.
Al di là di come la si possa pensare sui matrimoni organizzati nel 2022, Shtisel non poteva non trattare questo argomento. La figura del sensale di matrimonio è incredibilmente importante nelle famiglie haredim. Il sensale, addirittura, è catalizzatore delle pene e delle paure dei genitori poiché deve garantire che il matrimonio combinato funzioni non soltanto in termini economici, ma che garantisca l’unione e il prolungamento delle famiglie che si congiungono. Felicemente? Unorthodox, la miniserie uscita nel 2020 ce ne può dare un’idea, ma non siamo qui per giudicare.
Il fatto è che gli haredim sono una comunità dentro la quale o si accettano le regole oppure si è fuori. E in questo quadro c’è da considerare anche che i maschi e le femmine vivono praticamente vite separate fino, appunto, al matrimonio. Le scuole sono separate, le feste sono separate, e gli incontri casuali praticamente non esistono. Dai tre anni in su i due sessi vengono divisi e ognuno va per la sua strada. Per questo occorre qualcuno che si impegni per riunire questi giovani. Nonostante ciò, e per fortuna, il vincolo nuziale non è imposto dalle famiglie. Ai due futuri sposi, dopo una serie di incontri combinati (e sorvegliati) durante i quali devono conoscersi e cercare di capire se potrebbero vivere insieme il resto della loro vita, spetta l’ultima parola. Naturalmente, se uno dei due rifiuta l’altro è la tragedia. Si può ben immaginare, quindi, quanto siano carichi di responsabilità i due poveri ragazzi.
In Shstisel ovviamente il capitolo dedicato alle avventure amorose di Akiva è, incredibilmente appassionato e, al contempo, tragicomico. Senza fare spoiler, né giudicare, va sottolineata la visione che viene data alla ricerca della giusta fidanzata che, anche in questo caso, è condita da un sottile umorismo che alleggerisce, e di molto, quella che potrebbe essere una tragedia, malgrado tutte le buone intenzioni da parte di tutti.
Shtisel offre grandi opportunità allo spettatore interessato ad ampliare il suo bagaglio culturale. Gli argomenti che affronta andrebbero sviluppati uno per uno. Ci sarebbe da parlare degli abbigliamenti con i cappotti neri degli uomini e i vestiti delle donne che ti fanno credere di essere in un altro secolo; del cibo, così vario malgrado gli incredibili precetti culinari (nemmeno tutti così sbagliati); della lingua, lo yiddish, un idioma internazionale accomunabile a una specie di esperanto che, però, ha avuto successo e che regala ai dialoghi di Shtisel, quei dialoghi sempre un po’ sospesi tra la citazione biblica e la battuta sconcia, una marcia in più. E tante ma davvero tante altre cose.
Shtisel ha incuriosito molto chi non conosceva gli haredim perché è fatta veramente molto bene. Ed è piaciuta a tutti: ebrei laici e praticanti, cristiani e musulmani. Persino gli stessi haredim ci hanno tenuto a far sapere che, pur con qualche licenza poetica, Shtisel ha saputo ben rappresentarli tirandoli fuori dal ghetto e rendendoli meno strani.
Resta da chiedersi come abbiano fatto a vederla dal momento che non dovrebbero usare la televisione. Probabilmente la vecchia Malka ha permesso loro di utilizzare il suo televisore.