Considerando l’enorme impatto che la Silicon Valley ha sulla nostra vita, è sorprendente quanto raramente la cultura pop sia riuscita a parlarne in modo davvero efficace. Solo qualche libro e un paio di film sono riusciti davvero a portare questo mondo dentro il nostro mondo. Poi però nel 2014 è successo qualcosa. HBO ha messo in scena una serie maiuscola che in sei stagioni, tra molti alti e pochi bassi ha finalmente sviscerato in modo esaustivo, senza rinunciare al divertimento e alla leggerezza, tutto ciò: Silicon Valley, appunto.
La serie tratta di un piccolo team di sviluppatori di una startup Internet chiamata Pied Piper. Li vediamo lottare per capire la loro strategia, costruire il loro prodotto, raccogliere fondi e affrontare Hooli, il gigante della tecnologia che ha una somiglianza ovvia ma superficiale con Google o Microsoft.
La serie è una parodia quindi esagera le cose, ma come tutte le grandi parodie riesce in questo modo a intercettare e mostrare molte verità. La maggior parte dei diversi tipi di personalità che si vedono in Silicon Valley rispecchiano non solo gli stereotipi che abbiamo sul mondo dell’informatica e del business che la sovrasta, ma anche le reali dinamiche che la governano. I programmatori sono intelligenti, super competitivi anche con i loro amici e in difficoltà quando si tratta di interazioni sociali. L’accuratezza con la quale viene costruita ogni stagione è maniacale ed è evidente quanto produttori e scrittori abbiano dovuto approfondire prima di mettere su carta ciò che andavano a raccontare.
Durante le sei stagioni di Silicon Valley la nostra vita digitale e non solo è profondamente mutata. Abbiamo concesso alla tecnologia di avere sempre più accesso alle nostre vite.
Abbiamo trasformato i nostri smartphone in chiavi di casa, i nostri campanelli in video sentinelle e i nostri termostati in guardie carcerarie. Abbiamo lasciato entrare tanti dispositivi di ascolto, dando loro il benvenuto come amici fraterni. Oltre ovviamente ad aver regalato impronte digitali e volti ai nostri telefoni e laptop, comprando infine televisori che ci guardano almeno quanto noi guardiamo loro.
Abbiamo passato in rassegna i nostri gusti personali e le opzioni di intrattenimento per migliorare l’outfit dei nostri siti preferiti, meravigliandoci poi di come sembrano conoscerci bene. E, naturalmente, non ci sono limiti ai dati privati che abbiamo fornito felicemente a una miriade di aziende. La cosa più sorprendente è che diamo tutto gratuitamente. Svalutando forse la nostra privacy e anche una parte significativa della nostro stessa esistenza.
In modo sovversivo e spesso subliminale questo è ciò verso cui Silicon Valley ha cercato di metterci in guardia. La comedy della HBO ha raccontato gli esilaranti cicli di vittorie e fallimenti di una start-up fittizia (Pied Piper), che ha cercato di offrire al pubblico un’alternativa più veloce e migliore a Internet. “L’Internet che meritiamo“, come è stato descritto nella stagione finale.
Ma ciò che Silicon Valley desiderava mostrarci più di tutto era l’opportunità di una grande ripartenza del modello digitale. Eliminando il compromesso creato da titani tecnologici avidi ed egocentrici come il fondatore di Hooli, Gavin Belson (Matt Ross). Un personaggio che serviva in qualche modo come stereotipo delle icone maschili della tecnologia. Attraverso Gavin, Silicon Valley accusa con vari gradi di sfumature i grandi peccati del settore: egoismo, sconfinata audacia, sessismo, razzismo, avidità e arroganza nei confronti del consumatore.
Ma come detto Silicon Valley, creata da Mike Judge e curata da Alec Berg, è stata prima di tutto una satira. E questa scelta stilistica ci ha dimostrato una volta in più che la commedia, non il dramma, è il modo più efficace di mostrare lo specchio della società e di deridere coloro che rappresentano l’establishment.
La serie si è abilmente districata tra il godimento e la deplorazione del diritto maschile della tecnologia. Uno dei suoi momenti più esilaranti l’ha raggiunto sul finire della prima stagione, quando una discussione piuttosto grottesca ha ispirato Richard Hendricks (Thomas Middleditch) a scrivere l’innovativo codice per Pied Piper. Ed è qui però che il lavoro della serie resta incompiuto. E fa nascere negli spettatori più attenti il bisogno di una “nuova” Silicon Valley altrettanto divertente e altrettanto intelligente, solo questa volta incentrata sulle donne nella tecnologia. Sulla mancanza di uguaglianza.
Tutti gli studi, le iniziative e le azioni su questa persistente discriminazione vanno bene, ma ciò che funziona davvero nel nostro mondo è il morso pungente e sagace della satira.
Silicon Valley stessa però potrebbe averci pensato. In una delle sue ultime scene, ambientata dopo 10 anni, ci mostra Richard e il resto del team che visitano la casa dove tutto ha avuto inizio: “l’incubatore” di start-up di Erlich Bachman per talentuosi programmatori maschi. In questo futuro, Richard è diventato professore di etica e tecnologia alla Stanford University, Nelson “Big Head” Bighetti, interpretato da Josh Brener, ne è diventato invece il presidente. Jared si prende cura degli anziani e Monica afferma di lavorare per una “think tank” di Washington (verosimilmente quindi lavora per la NSA). Dinesh e Gilfoyle, giustamente, sono comproprietari di una società di sicurezza informatica.
Mentre si crogiolano nei ricordi nella sala da pranzo dove un tempo scrivevano codici così freneticamente, la figlia del proprietario di casa, che pur studiando a Stanford non ha mai sentito parlare della storia gloriosa di Pied Piper, gli racconta del progetto a cui sta lavorando: usare il DNA per automatizzare la pianificazione delle persone.
Ecco che una Silicon Valley al femminile, se in grado di trattare entrambi gli aspetti con il giusto dosaggio di ironia e sagacia com’è successo in queste sei stagioni, potrebbe essere realmente un concreto passo avanti per superare questo pregiudizio. Il mondo high-tech nella sua espressione più pop, quella nerd, vive di una forte e competente anima femminile che necessità di un riconoscimento e una valorizzazione anche nel mondo dell’intrattenimento seriale. Così da sfruttare questo medium non solo come specchio della realtà ma anche come strumento in grado di far riflettere su essa.