Tutto, prima o poi, finisce. Anche le serie televisive. A volte bene, molte volte male, molto spesso un finale nemmeno ce l’hanno perché vengono cancellate. In ogni caso, soprattutto se l’abbiamo amata, è una sofferenza tale da pote essere addirittura paragonabile a un lutto.
Come prodotto della nostra cultura occidentale anche la televisione ha sempre avuto la tendenza a evitare di parlare della morte. Certamente, di cadaveri ne sono piene le serie ma per lo più hanno una funzione narrativa per creare un mistero, un colpo di scena o, alla peggio, per spiegare la partenza di un attore (salvo poi resuscitarlo, magari con un altro volto).
Il primo cenno di morte ragionata, alla quale non ci si poteva proprio sottrarre, probabilmente è stato ne I segreti di Twin Peaks (qui vi raccontiamo qualche curiosità), agli inizi degli anni Novanta. L’omicidio di Laura Palmer è qualcosa che ha sconvolto il mondo intero obbligando i telespettatori a confrontarsi con il dolore proprio e comune, senza il supporto di risposte facili e coerenti. Poi, circa dieci anni dopo, è arrivato Six Feet Under e come spesso accade fu una rivoluzione.
Creata da Alan Ball, all’epoca freschissimo vincitore di un premio Oscar nella categoria miglior sceneggiatura originale con American Beauty (1999), Six Feet Under è andata in onda sulla HBO dal 2001 al 2005 per un totale di sessantatré episodi (in Italia la serie venne trasmessa dal 2004 al 2008 su diverse reti televisive). Di tutti gli argomenti tabù che Ball avrebbe potuto affrontare, e all’epoca ce n’erano davvero molti visto il tipo di televisione che veniva trasmessa, quello della morte era certamente il più complesso, perché parte integrante della vita di ognuno di noi, e probabilmente l’unico del quale nessuno volesse parlare se non in maniera superficiale, come si trattano le vittime di un omicidio in una serie come quella della Signora in Giallo.
Quando Ball si presentò alla HBO con la sceneggiatura del pilot i dirigente del canale televisivo via cavo gli fecero i complimenti, apprezzarono molto l’idea, i personaggi, le situazioni ma vollero di più. Gli dissero, sostanzialmente, che avrebbe dovuto incasinare tutto all’ennesima potenza per tirar fuori dalla comfort zone il telespettatore medio. Del resto erano alla HBO, quella che trasmetteva I Soprano, The Wire e Deadwood, in un momento in cui il dramma televisivo stava radicalmente cambiando trasformandosi da semplice accompagnamento mentre si mangiava a vero e proprio cult. Ball, naturalmente, accettò la sfida creando quello che è considerato uno dei più grandi capolavori tra le serie televisive.
Vincitrice, tra gli altri premi, di nove Emmy e tre Golden Globe, Six Feet Under ha goduto del pieno sostegno della critica e del pubblico, dalla prima all’ultima stagione. Certo, ha avuto la sfortuna di venire trasmessa insieme a un altro pezzo da novanta della HBO come I Soprano ma non ne ha mai accusato il colpo in termini di ascolti. Anzi, al termine della quarta stagione i risultati erano talmente positivi che i dirigenti del canale televisivo proposero a Ball e il suo team di scrittori di prolungare ancora la serie e di arrivare almeno fino alla settima stagione ma il premio Oscar rifiutò ritenendo la quinta il momento giusto per chiudere e andare avanti. Proprio come si fa dopo una grave perdita (qui ve ne parliamo).
Di addii, soprattutto definitivi, Six Feet Under se ne intende. Ogni puntata (qui la nostra speciale classifica), infatti, inizia con la morte di un estraneo e l’intervento della famiglia Fisher con la loro impresa di pompe funebri a Los Angeles, la Fisher & Sons. L’evento tragico, di per sé non particolarmente toccante dal punto di vista narrativo e molto spesso grottesco o persino comico, permette ai protagonisti di affrontare vita con le sue naturali e banali problematiche. I protagonisti, che nel pilot si trovano ad affrontare la morte del capofamiglia, sono professionisti nel ramo, dotati però di un cuore, un cervello e un’anima con i quali non fanno altro che dimostrare a se stessi e ai telespettatori come non ci sia niente di più umano e naturale della fine di una vita. Nel farlo, per salvaguardare la propria salute psicofisica, utilizzano, come molto spesso accade, il migliore black humor. La serie, in questi termini, sarebbe potuta durare praticamente all’infinito (e già c’era chi, tra gli autori, si era immaginato di raccontare le storie di nuove generazioni di Fisher). Così quando lo staff di sceneggiatori si è seduto alla scrivania per lavorare sull’ultimo episodio hanno deciso di cambiare le carte in tavola e stravolgere il loro stesso lavoro, cominciando l’ultima puntata con una nascita anziché una morte.
I finali di serie possono essere una vera catastrofe, quando ci sono. Solitamente si cerca di dare un senso a tutto quello che c’è stato nelle puntate precedenti e più lunga è la seria più diventa difficile riuscire a far quadrare il cerchio. Dal cilindro molto spesso vengono tirate fuori soluzioni che non sempre accontentato i telespettatori lasciando loro un senso di mancata chiusura davvero difficile da digerire. A volte le serie hanno quei finali artistici che risultano incomprensibili anche ai loro stessi creatori e che scatenano le ire dei fan sui social; altre, i personaggi non hanno il finale che meriterebbero. Insomma, accontentare tutti è praticamente impossibile. Ma non è il caso di Six Feet Under. Nel capolavoro di Alan Ball la fine viene preparata con calma e inizia con l’evento catartico della morte, piuttosto comune, del suo protagonista, qualche puntata prima dell’ultimo episodio. Da questo momento, così tragico, tutto sembra prendere improvvisamente una strada leggermente in discesa diretta verso l’apoteosi finale. La fine di Nate, come quella del padre all’inizio, è la molla che spinge tutti gli altri personaggi a ricrearsi una vita e permette ai telespettatori di avere il tempo per prepararsi emotivamente a dire addio ai propri beniamini.
L’idea di chiudere Six Feet Under in maniera totale venne durante un brainstorming appassionato. Un gruppo di sceneggiatori propose di farla finita, letteralmente, con tutti i personaggi e di farlo in maniera piuttosto grottesca (si narra di un esplosione atomica a Los Angeles durante la cena del Ringraziamento). Inizialmente questa idea non piacque ad Alan Ball che la trovò addirittura troppo nichilista. Poi cambiò idea rendendosi conto che, in fin dei conti, era la cosa più naturale avendo parlato di morte per oltre sessata puntate. Così decise di metter da parte l’apocalisse atomica e di far scrivere a ciascuno dei suoi collaboratori la morte di tutti i personaggi principali rimasti dopo la fine di Nate prendendosi la responsabilità di scegliere per ciascuno il giusto finale.
E così eccoci finalmente agli ultimi minuti dell’ultima puntata. Claire sale in auto e comincia il viaggio verso una nuova vita, un nuovo orizzonte, a New York. Lo fa mentre le casse dell’auto fano rimbombare nell’abitacolo Breathe Me, di Sia. Accanto a lei ci sono i telespettatori e l’autostrada imboccata non è altro che un condotto spazio-temporale utile per sbirciare la fine degli altri protagonisti: Keith, Ruth, David, Federico, Brenda e la stessa Claire. Per ogni personaggio la morte rappresenta null’altro che la logica estensione di quello che erano in vita e fornisce la chiusura perfetta della loro storia. In ciascuna morte ogni protagonista vede attorno a sé gli spettri del passato e si ricongiunge con i suoi cari. Allo spettatore non resta che stare in silenzio a guardare, col dovuto rispetto e la dovuta commossa partecipazione, la fine dei suoi amici.
A volte capita che le serie non abbiano un finale, o che questo sia interpretabile permettendo al telespettatore di continuare a far vivere i propri eroi nella propria immaginazione. Six Feet Under, invece, ci pone di fronte un finale con la effe maiuscola. Con il suo sorprendente senso dell’umorismo, la caratterizzazione sempre coerente e il rispetto per la perdita della vita questo Finale rappresenta tutto quello per cui Six Feet Under è stato amato. Proprio come un grande romanzo la narrazione si conclude in maniera definitiva, senza sospensioni. Lo fa nella maniera che meglio conosce, attraverso la morte, che nella sua tragicità però lascia comunque un senso di speranza e di serenità affermando che la vita, nella sua intera completezza, rimane qualcosa senza pari.