Se muori negli Stati Uniti, uno strato di terra spesso circa un metro e ottantatré centimetri- sei piedi, appunto – ti farà da coperta per un bel po’ di tempo. Se muori negli Stati Uniti, dicevamo, il resto dell’eternità lo passerai Sei piedi sottoterra o, come direbbe un americano, Six Feet Under.
Se sei morto a Lewistown o a Petersburg, nell’Illinois, entro i primi del Novecento, oltre che Sei piedi sottoterra, probabilmente sei anche in uno dei componimenti poetici in versi liberi con cui quel genio di Edgar Lee Masters ha raccontato la storia della quasi immaginaria comunità di Spoon River.
Insomma, se stessimo ragionando con degli insieme e tu che stai leggendo fossi, che so, il giudice Selah Lively saresti ubiquo: sei piedi sottoterra e tra le pagine di uno dei libri più belli che siano mai stati scritti (oltre che in una canzone di un poeta genovese italiano, ma questa è un’altra storia).
Tu saresti nell’intersezione, insomma, delle opere di cui vorremmo trattare in questo testo.
Ma tu che stai leggendo, ed io che sto scrivendo, non siamo nè il giudice sopracitato, nè Minerva Jones, nè il Reverendo Abner Peet, nè Lucius Atherton. Insomma, non siamo nessuno di quelli che “dormono sulla collina”. Eppure nondimeno queste opere e questo articolo ci si vorrebbero rivolgere, poichè trattano di una cosa che – spiacenti! – ci riguarda tutti: la morte.
La morte è un tabù per il mondo occidentale. I film e la serialità ce la mostrano continuamente, ma raramente ne fanno l’argomento principale di narrazione. Le due opere che associamo in questo articolo, invece, sono tra le poche a farlo e a farlo con un garbo, una delicatezza e un livello poetico tanto notevoli.
Presentiamo allora questi due capolavori.
1915. L’Antologia di Spoon River è una raccolta di epitaffi scritti in versi liberi, nei quali viene raccontata la storia di diversi abitanti dell’immaginaria cittadina di Spoon River. Con questo geniale espediente, Edgar Lee Masters sbugiarda l’ipocrisia della provincia puritana americana di fine Ottocento, inizio Novecento. E’ proprio nella morte, infatti, che i – ormai – furono cittadini possono sentirsi più liberi di raccontare la propria verità, senza timore di essere giudicati, senza aspirazione al quella comprensione altrui che spesso cerchiamo in vita. Le storie raccontate in questi epitaffi si intersecano fra loro, fino a delineare un’evanescente e metafisica mappa nella quale possiamo rinvenire la sfumatura che è l’unica verità della vita che ci è concesso non di sapere, ma di sentire.
2001 – 2005. Six Feet Under è una serie tv statunitense creata e prodotta da Alan Ball (premio Oscar per American Beauty) e parla, fondamentalmente, delle vicissitudini di una famiglia di impresari funebri, i Fisher. La narrazione delle storie dei componenti di questa famiglia (la madre Ruth, i fratelli Nate, David, Claire e i personaggi che hanno a che fare con loro) principia quando il padre, proprietario dell’impresa funebre, muore. Ogni episodio di Six Feet Under si apre con una morte, che determina il taglio, lo sguardo, il tenore della puntata. I temi affrontati attraverso la lente d’ingrandimento della morte sono molteplici e illuminano differenti aspetti della vita dei protagonisti (e di chi la guarda).
Se dire cosa rende differenti queste due opere ci risulta piuttosto facile (trascorre quasi un secolo tra l’una e l’altra, da una parte abbiamo un’opera letteraria, per giunta in poesia, dall’altra una serie tv, il disvelamento dell’ipocrisia della provincia americana così palese nella prima è solo uno e tra i meno evidenti aspetti della seconda e potremmo andare avanti), più complicato sarà spiegare come mai ci siamo trovati un giorno a domandarci cosa le legasse. Entrambe parlano di morte, certo, ma non può essere certo solo questo. Forse si tratta della poeticità che è la forma dell’Antologia di Lee Masters, ma che appare evidente anche in diversi passaggi di Six Feet Under, ma non è nemmeno questo.
Innanzitutto, in entrambe le opere la morte è il punto di partenza e non di arrivo. O meglio, gli espedienti narrativi utilizzati dallo scrittore e da Alan Ball si assomigliano. Come i morti dell’Antologia ci parlano da “morti”, così gli episodi di Six Feet Under si aprono sempre con una morte che “ci parla” di qualcosa, spalancandoci finestre su riflessioni e prospettive inedite.
Prendiamo a titolo esemplificativo le morti della prima stagione di Six Feet Under:
Nathaniel Samuel Fisher (1943-2000 – incidente stradale)
Chandler James Swanson (1967-2001 – frattura al cranio durante un tuffo in piscina)
Thomas Alfredo Romano (1944-2001 – frantumato da un’impastatrice automatica)
Manuel “Paco” Antonio Pedro Bolin (1980-2001 – ucciso in una sparatoria)
Jean Louise McArthur “Viveca St. John” (1957-2001 – folgorazione nella vasca da bagno)
Mildred “Hattie” Effinger Jones (1922-2001 – cause naturali)
Victor Wayne Kovitch (1971-2001 – sindrome della guerra del Golfo)
Chloe Anne Bryant Yorkin (1959-2001 – si scontra con una gru mentre si sporge dal tettuccio di una limousine)
Anthony Christopher Finelli (1994-2001 – si spara involontariamente)
Jonathan Arthur Hanley (1946-2001 – ucciso dalla moglie con una padellata in testa)
Dillon Michael Cooper (2001-2001 – sindrome della morte improvvisa del lattante)
Marcus Foster, jr (1978-2001 – picchiato a morte)
Lilian Grace Montrose (1939-2001 – colpita al capo da una palla da golf)
Ben più prosaiche di quelle dell’Antologia di Spoon River, queste “iscrizioni sepolcrali” ci introducono alle puntate ponendoci immediatamente di fronte a una serie di interrogativi sulla morte e dunque anche sulla vita. Entrambe le opere ci mostrano solo una parte della vita delle storie dei defunti – peraltro a posteriori – ma quanti interrogativi ci fanno sorgere queste esistenze? Vite differenti per età, per sesso, per estrazione sociale, per la fine che hanno avuto, questi epitaffi intercettano la nostra curiosità e le nostre domande su questioni universali: la solitudine, i rapporti famigliari, i rituali a cui ci affidiamo, le paure, i sogni, le aspettative, il destino, la religione, il senso delle cose.
E se l’Antologia di Spoon River e Six Feet Under non ci aiutano di certo a trovare le risposte, essi hanno tuttavia il grande pregio di farci esperire in parte quanto ha scritto John Donne qualche secolo fa: “La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te“.
E se l’Antologia di Spoon River lo fa con il mezzo più nobile e magico che la letteratura ci ha dato (la poesia), Six Feet Under raggiunge il pieno compimento di questo intento nel suo immenso finale. Non tutti infatti potrebbero aver empatizzato, essersi sentiti partecipi delle morti (e delle vite, torniamo a dire) che aprono gli episodi, ma è praticamente impossibile sfuggire al meccanismo perfetto con cui Alan Ball porta a sentire “la campana”. Così, nell’ultimo episodio di Six Feet Under ai flashback che introducono le puntate, si sostituisce un flashfoward che ci mostra la dipartita di tutti i protagonisti. Una conclusione semplicemente perfetta e inedita: abbiamo empatizzato per cinque stagioni con personaggi dei quali – differentemente da quello a cui siamo abituati – ci viene mostrata la morte.
Non sappiamo rispondere davvero alla domanda provocatoria che abbiamo messo come titolo a questo articolo, ma sappiamo con certezza che l’Antologia di Spoon River e Six Feet Under ci accompagnano, prendoci per mano, in lande in cui non andiamo volentieri, eppure non riusciamo a non pensare che sia bellissimo essere lì.