Claire in Six Feet Under impugna la macchina fotografica, scatta la foto. È un clic, un istante appena. Un attimo che vuole farsi eternità. È il suo modo, il nostro modo per sottrarci all’invida aetas, al tempo invidioso, geloso della nostra vita, della nostra finitezza. Della possibilità di amare, soffrire, vivere, sentire ciò che ci circonda. Perché qualcosa di eterno non sente nulla, semplicemente non vive, non esiste. Se viviamo, se sentiamo, è solo perché davanti a noi è sempre presente, a volte incombente, a volte silenziosa e quasi assente (così finge) la morte. Accanto a noi c’è Nate (qui La spiegazione del finale di Six Feet Under).
C’è chi abbiamo perso, chi avremmo voluto per sempre al nostro fianco e che invece con la sua presente assenza ci ricorda che siamo finiti, che siamo mortali e che non ha senso affidarsi a una longam spem, a una lunga speranza mentre scorre davanti a noi il paralizzante orrore di una vita che si recide in un istante.
Lo sentiamo, quel memento mori costante, quella sicurezza che tutto finirà.
E allora non ha senso proiettarsi al futuro, affidarsi ai Babylonios numeros, gli oroscopi caldei, perché non ci è dato sapere cosa sarà. Non ci è dato sapere se vivremo molti inverni o se questo sarà l’ultimo. E questa consapevolezza diventa pesante e vivissima solo quando vedi Nate al tuo fianco. Quando sperimenti, come Claire, la perdita di qualcuno che non credevi possibile.
E allora d’improvviso realizzi. Fino a quel momento viviamo nell’assurda convinzione che non finirà mai, che “saremo” per sempre. Viviamo nell’illusione nella quale la Natura ci ha imprigionato per non farci impazzire. Il trucco che ci fa ignorare la fine nonostante sia davanti a noi. Ma questo inganno svanisce d’improvviso quando vedi la morte. E ti viene da chiederti perché nessuno te lo abbia mai detto, come facessimo a non saperlo. Come potessimo vivere in una così cieca fantasticheria.
C’è Nate. La sua morte in Six Feet Under è il pesante senso di perdita, le lunghe speranze di una vita futura che si infrangono. Le immagini di una famiglia, di affetti e amore che svaniscono in un clic. Allora non ci rimane altro che realizzare e cercare una risposta. E la risposta è lì, in quel tentativo disperato, assurdo di fermare il tempo invidioso, di sottrarci alla corruzione di tutte le cose. Di scattare quella foto che possa durare per sempre, che possa imprimere su pellicola l’eternità di un ricordo. L’eleganza senza tempo di Six Feet Under.
Ma Nate, ricordo della morte in Six Feet Under, è lì per ammonirci ancora una volta che dum loquimur, fugerit invida aetas.
Mentre parliamo, sarà già fuggito il tempo invidioso. Mentre scattiamo quella foto, il momento è già trascorso perché è un futuro anteriore, un istante che in un niente scorre dal futuro al nostro passato. “Quello è il tuo passato: non verrà niente sulla foto“, ci dice Nate. E lo sappiamo. Sappiamo che non siamo stati abbastanza veloci, che abbiamo indugiato troppo e l’istante ci è sfuggito.
Cosa ci resta da fare? Cosa possiamo fare? Dobbiamo riprovarci. Essere più decisi, più sicuri, più veloci. Carpe diem, dobbiamo cogliere come un frutto dall’albero quell’istante. Non trascinarlo, perché il frutto si stacca solo se diamo un colpo deciso, solo se siamo sicuri e fermi. E se siamo così veloci da ingannare l’albero, da ingannare il tempo invidioso. Claire in Six Feet Under, come ogni uomo su questa terra che ha sentito il peso della sua mortalità, decide di vivere il momento.
Parte per New York senza affidarsi a prolungate speranze, senza consultare il futuro, senza un piano ben preciso. Sceglie di vivere l’attimo e sarà quel che sarà. Recide ogni lunga speranza che oltrepassi il breve spazio del tempo immediato. Perché conosce la sua mortalità. Perché vede Nate accanto a sé. Non ha un piano, non ha nulla a New York. Non un lavoro, dei contatti, un progetto. Ma parte per vivere quel momento. Afferra veloce, velocissima l’attimo che ti permette di vivere, quam minimo credula postero, credendo il meno possibile nel domani. Affidandosi esclusivamente al presente.
E questa sarà la consapevolezza della sua vita.
Afferrare ogni momento, scattare quella foto prima che l’istante sia passato. Ingannare e vincere il tempo mentre Six Feet Under ci mostra le immagini della morte che coglie, chi prima chi poi, tutti loro, tutti noi. Clic. Carpe diem. Ce l’abbiamo fatta, abbiamo trasformato quell’istante in qualcosa di eterno. Il tempo è sconfitto, abbiamo eretto un monumento
più eterno del bronzo,
più alto della mole regale delle Piramidi, tale che
né la pioggia corroditrice né l’Austro sfrenato
potrebbero distruggerlo, né l’innumerabile serie
degli anni e la fuga delle stagioni.
Non morrò del tutto, e molta parte
di me sfuggirà a Morte, e in futuro
crescerò sempre, rinnovandosi la mia gloria
Con la sua arte Claire in Six Feet Under sottrae il momento alla caducità, lo rende eterno preservando il ricordo, preservando l’emozione. Trasformandolo in qualcosa che arriva a tutti e sopravvive anche alla sua morte. Tutte quelle foto che la circondano saranno lì per sempre, saranno il quadro di un van Gogh che non smettere di far soffrire e di essere amato, saranno quella poesia di Orazio che ci insegna come sottrarci alla morte. Sarà quella canzone che chiede, disperata, Breathe Me, respirami, fammi tua, preservami, in te, dal tempo.
Non è la morte a vincere in Six Feet Under.
Six Feet Under parla della vita attraverso la morte. La morte è solo l’ammonimento a vivere. A cogliere quel giorno che scorre via, ad assaporare ogni momento. Perché Six Feet Under è così, produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede alla vita, e te la fa desiderare; non crede alla famiglia, e te la fa volere. Chiama illusioni l’amore, la morale, la comunità e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore (mi perdonerà il compianto critico de Sanctis per questa parafrasi libera di un suo giudizio su Leopardi).
Così ci lascia Six Feet Under, con quell’imperativo, carpe!, che mostrandoci la morte e il dolore ci spinge a vivere e amare. Ci spinge a voler vivere per sempre lasciando un ricordo del bene e del buono che abbiamo fatto e che ci sopravvivrà. Come un monumento eterno che sfugge a Morte. Più alto delle Piramidi, più durevole dell’acciaio.
Non domandare, Leuconoe – non ci è dato sapere – che
Orazio, Odi I, XI
destino a me e a te gli dèi hanno assegnato, né consulta
gli oroscopi babilonesi. Com’è meglio sopportare ciò che sarà, sia che
ci abbia dato ancora tanti inverni Giove sia che questo, che sfianca
il mar Tirreno con rocce di pomice, sia l’ultimo: sii assennata,
purifica il vino e recidi la speranza prolungata nel breve spazio del tempo immediato
Mentre parliamo, sarà fuggito il tempo invidioso:
cogli l’attimo, credendo il meno possibile nel domani.