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Il pilot di Six Feet Under è fuori di testa

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Six Feet Under è la serie capolavoro firmata dal grande Alan Ball e targata HBO. Sono ormai passati 20 anni dalla messa in onda dello straordinario pilot che ci introduce alla folle quotidianità della famiglia Fisher e della loro azienda di famiglia. Con Claire, Ruth, Nate e David abbiamo scavato centimetro dopo centimetro quei sei piedi di terra che dividono la vita con la morte e, nel farlo, abbiamo assistito al lento e diluito sgocciolare di vite umane, che hanno fatto da cornice ai singoli episodi.

Più e più volte si è scritto del finale di Six Feet Under, considerato uno dei più belli della storia, ma oggi ci spostiamo dalla fine all’inizio, analizzando il folle e meraviglioso pilot della serie.

Se mi chiedessero qual è la particolarità di Six Feet Under, la prima cosa che mi verrebbe in mente è il contrasto tra vita e morte. L’analisi quiete e a tinte pastello di quell’invisibile linea di confine che traccia l’essenza dall’ignoto. Tutti in qualche misura hanno a che fare con la morte, ognuno ha un suo modo di metabolizzarla ma inevitabilmente la morte è paura. Quella paura, quel brivido trascendentale e innato, in Six Feet Under diviene la lente attraverso cui si scardina il quotidiano. Il gomitolo annodato della famiglia Fisher si srotola lento e con irrompente ferocia.

Tutto inizia con la morte, sciorinata nelle sue molteplici sfaccettature: la morte fisica, con la vita di Nathaniel Fisher Sr. spenta come un mozzicone di sigaretta di troppo. La morte sociale, come quella che si aggira silente nelle trame della famiglia Fisher e delle sue incomprensioni reiterate. Attraverso i muri silenziosi del pilot comprendiamo come molto spesso ci si ami per abitudine, senza conoscersi davvero, convivendo giornalmente con le immagini falsate di noi stessi, usurate dai segreti e dalla paura degli stessi. La paura. Protagonista di questa serie forse ancor più della morte e della vita stessa. Il vero elemento che ricongiunge la vita al confine con la morte e la sua percezione.

Your father is dead, and my pot roast is ruined
“Tuo padre è morto e il mio brasato è da buttare”

Una frase semplice, appoggiata con stridente calma tra i cocci delle urla folli.

six feet under

Uno squarcio fuggitivo di realismo che evade furtivo dalla prigionia di perbenismo in cui è relegato. D’altronde, la famiglia Fisher prende la morte allo stato brado e la abbellisce per renderla più consona agli standard fasulli della vita. Per far sì che un cadavere assomigli più a un dormiente che a un corpo senza vita, prova avvizzita della concretezza decadente dell’esistenza. Perché noi, fragili, abbiamo bisogno di filtri e arzigogoli posticci per affrontare la realtà e non rimanere schiacciati dalla paura dell’inevitabile. Proprio come la famiglia Fisher che, mai come in questo pilot spiazzante, si aggrappa alle apparenze e ai non detti per mantenersi in equilibrio sull’esistenza.

Una metafora di tutto questo è la stanza appartata in cui viene trascinato chiunque mostri più dolore del necessario. Una lacrima di troppo è sufficiente per finire in quell’isolamento travestito da riservatezza ma che, nella sostanza, non è nient’altro che un espediente per nascondere i sentimenti come polvere sotto il tappeto.

Nate costituisce il pesce fuor d’acqua. Il figlio fuggito al suo destino che si ribella alle convenzioni e ruggisce la sua necessità di sputare via il dolore, lasciare che quest’ultimo graffi la pelle e sporchi le mani piuttosto che imputridire nel silenzio appartato dell’anima.

A fare da contorno a questo chiaroscuro di contrasti ci sono gli intermezzi pubblicitari che, tra il grottesco e lo psichedelico, incastrano e riassumono sapientemente il messaggio di tutta Six Feet Under.

six feet under

La morte è un prodotto brutto che va venduto a caro prezzo per la sua inevitabilità, ma che l’uomo si diverte a travestire da fiaba per rifuggire dalla necessità di fronteggiarla. Il cadavere è una scultura, la bara un vezzo, il funerale una saggio di danza classica.

È così che funziona

Ogni membro della famiglia viene ritratto in questo pilot con grazia e sapienza suprema. Da David, schiavo della perfezione estetica, terrorizzato dalla possibilità di perdere il controllo e con esso la sua maschera quotidiana. Fino a Nate, in costante fuga dalla vita ma con il ricorrente incubo della morte. Proprio la dipartita improvvisa e devastante del padre lo lascia inerme al bivio più importante della sua esistenza. La fuga deve finire, è tempo di tornare a casa e far sì che quella manciata di giorni in più diventino una nuova incerta stabilità. Solo allora Nate incontra finalmente suo padre, in attesa di quel bus nefasto che impersona la morte.

Nathaniel sr. aspetta, fa il suo biglietto, sale a bordo e gli porge simbolicamente quel saluto che nella vita è stato lasciato a metà. Nathaniel abbraccia la morte consapevolmente, d’altronde per tutti gli altri non è nient’altro “a good night sleep” come il veicolo stesso riporta sulla fiancata. Il tutto mentre Nate è incapace di muoversi e, in quell’immobilismo, viene investito dalla vita che scorre.

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