Pensate alla morte. Pensate alla fine. Un sonno senza sogni, un grande vuoto, nulla. Semplicemente: non esistere più. Non parlo di cosa c’è dopo perché a nessuno è dato sapere cosa – e se – c’è ‘dopo’. Noi possiamo solo occuparci del presente, della terra, della vita e della morte. A separarle sono solo Six Feet Under, sei piedi, poco meno di due metri. Cosa pensate accada in quel momento finale? Quando si è sospesi tra esistenza e non esistenza, poco prima di tornare alla terra sprofondando per quei sei piedi?
Ho fatto esperienza della morte quando ero un bambino: un attimo prima qualcuno era lì, un attimo dopo non c’era più. Semplicemente se n’era ‘andato’, come eufemisticamente si suol dire. Non era andato da nessuna parte, in realtà: era morto. Con la morte si apre Six Feet Under. Una morte che ritesse insieme vite diverse, persone distanti fisicamente ed emotivamente.
Quella morte di Nathaniel Fisher senior, quella chiusura su una vita, illumina Six Feet Under.
Si inizia con la morte. Si finirà con la morte. In mezzo, però, c’è la vita. C’è lo smarrimento, il dolore, la sofferenza, la felicità fugace, il conforto di un amico, gli errori, i gesti di forza, l’altruismo. C’è, insomma, l’uomo. Se volete sapere di cosa parla Six Feet Under la risposta è tutta qui: nel disperato chiedersi quale sia il significato, se un significato c’è, di tutto questo.
E allora inizia il nostro viaggio. Inizia dalla morte la nostra vita, dalla perdita, dall’abbandono. Inizia negli occhi di Nate, di un uomo perso tra amori fugaci e sogni infranti. E in quel Nate, più che in chiunque altro, veniamo a identificarci noi. Perché noi, come lui, siamo costantemente tesi verso un bisogno di bontà, di famiglia, di autenticità mentre di contro la realtà del mondo si consuma attorno a noi.
Six Feet Under è una casa che si sgretola passo dopo passo mentre ci viviamo, la usuriamo, imprimiamo le nostre emozioni su quelle pareti. La morte ci accompagna in ogni momento attraverso le anime di chi ci ha preceduto. Quelle anime ci sussurrano all’orecchio, ci provocano, ci mettono a disagio. Quei fantasmi ci torturano ricordandoci sempre che siamo una bomba a orologeria. Che la morte alberga dentro di noi. Nati dalla morte, consumati e pronti a sgretolarci nella morte.
Atomo dopo atomo diventiamo sempre più nulla.
Lo sa bene, più di ogni altro, Nate Fisher, il figlio di Nathaniel, lui che avrà davvero contezza della morte. Non solo perché ne è circondato ma perché sa che ha le ore, i giorni, magari con un po’ di fortuna gli anni, contati. Pensiamo di essere immortali. Sappiamo che siamo destinati a morire ma chissà come ci carichiamo dell’illusione che non accadrà. Che è qualcosa che a noi non toccherà.
È una bella illusione, ci permette di non impazzire, forse. Di sopravvivere. Ma Nate non può farlo, a Nate quell’illusione è stata tolta. E così non resta che guardare faccia a faccia la morte. La guardiamo con lui quell’oscurità senza sogni mentre cerchiamo disperatamente autenticità. Amore, affetto, felicità. E sapete cosa? Non riusciamo a trovarla. Ogni cosa attorno a noi sembra vivere, fiorire, consumarsi allegramente nell’esistenza. E noi assistiamo distanti, incapaci di prendere parte a quel tutto.
Perché quando guardi la morte non puoi più nasconderti nell’illusione. E allora corriamo, corriamo e ci agitiamo come diavoli. Pensiamo di trovare nell’altro quello che stiamo cercando. Ma c’è sempre un vuoto, un impercettibile nulla che ci tiene a distanza. Nate prova a riempire quel vuoto col sesso, dando e ricevendo un amore fisico. Compensando nella carne il vuoto dello spirito. Dice no alla morte riaffermando la vita nella sua concretezza materiale.
Ma non basta. Non riusciamo ad amare davvero e completamente.
E così cambiamo per l’ennesima volta, ci rigiriamo nel letto capovolgendo la nostra vita nella disperata convinzione di trovare un sonno fatto di sogni. I feel my luck could change, come cantano i Radiohead in Six Feet Under. Ma quello che ci raggiunge è solo oscurità e fantasmi. Quegli spiriti che ci ossessionano e che scopriamo essere nient’altro che noi stessi: le nostre paure, i nostri dubbi, il nostro tormento esistenziale.
Chiudiamo gli occhi. Un vuoto senza sogni. Solo oscurità. Ma le nostre palpebre si muovono ancora, si risollevano. La vita si riapre davanti a noi ricordandoci che non è ancora il momento. Abbiamo sperimentato la morte in Six Feet Under e, così, riscoperto la vita. Non abbiamo la risposta. Probabilmente non la avremo mai ma ora sappiamo una cosa: dobbiamo vivere, vogliamo vivere. Ora più che mai vogliamo essere reali, autentici, presenti nel mondo.
Da bambino ho visto la vita diventare morte. Quella morte mi ha accompagnato per un po’, ha sussurrato alle mie orecchie. Non mi abbandona ancora: mi ricorda sempre con un sorriso la fallibile mortalità dell’uomo. Ma col tempo ho imparato a lasciarla sei piedi dietro di me. Ho imparato, come farà Claire Fisher in Six Feet Under, che dalla morte può nascere la vita e che la morte deve essere sprone alla vita. Dobbiamo imprimere la vita, farlo tutti i giorni.
Farlo ora che siamo qui, che siamo reali, concreti, vivi.
Imprimere la vita significa innanzitutto vivere davvero, rinunciando a sopravvivere, a illuderci che la morte non fa parte di noi. Guardiamo alla morte e torniamo alla vita. Imprimiamola questa vita negli altri, nei ricordi, nelle immagini che scattiamo della nostra casa prima che questa crolli sotto il peso del tempo. Perché, sapete cosa? Quelle foto saranno ciò che resterà prima del buio. Sarà ciò che sopravvivrà di noi negli altri.
E allora chiudere gli occhi non sarà più un orrore così grande. Rivedremo per un attimo, un secondo appena prima del nulla, l’istantanea più autentica: la persona amata più giovane e bella che mai, i nostri figli appena nati, il bene che abbiamo fatto. E vivremo. Per sempre. Sei piedi sopra la terra. Quanto basta per non essere più polvere e non diventare ancora aria. Sei piedi sopra la terra, vicini ma invisibili memorie di incorporeo amore.
La vita è una sola. Non esiste dio, regola, giudizi morali, tranne quelli che accetti o che crei per te stesso e quando è finita, è finita. Un sonno senza sogni in eterno. Perché non provare ad essere felici?