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Il senso della vita e della morte in Six Feet Under

six feet under claire fisher
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Help, I have done it again
I have been here many times before
Hurt myself again today
And the worst part is there’s no one else to blame

Perchè in fondo è così, per i personaggi di Six Feet Under. C’è sempre qualcun altro da incolpare per i propri comportamenti autodistruttivi. Per le proprie frustrazioni, la fragilità intrinseca e la più totale incapacità di farsi carico delle proprie responsabilità. Oltre che per la costante inadeguatezza che sfocia, sempre e comunque, in un vuoto cosmico, ineluttabile e persistente. Tipico di chi sente solo.

E il tema della solitudine è fondamentale per arrivare a parlare dello stupendo finale di una serie che tutti dovrebbero vivere, sentire. Perchè il concerto di visione è estremamente limitante in casi del genere. Ma dicevamo della solitudine, vale a dire il tarlo che affligge ogni personaggio della serie e matrice di ogni suo comportamento. Che in Nate si traduce nell’impossibilità di avere una relazione stabile con qualsiasi donna; allo stesso modo David non riesce a vivere in maniera sana la sua relazione con Keith (e, in generale, la propria omosessualità); Claire, che guarda con paura al futuro, si rifugia nell’alcool, nelle droghe e nella compagnia di persone sostanzialmente vuote e disadattate; Ruth, la madre ma molto spesso la più immatura di tutti, proprio per il viscerale bisogno di trovare conforto in altre persone, si butta tra le braccia di uomini discutibili. E il discorso si allarga anche a quanti orbitano intorno alla famiglia Fisher: Federico, ispanico che prova disperatamente a mischiarsi “tra i borghesi”, Brenda e Keith che reagiscono in maniera diversa ma ugualmente disfunzionale a una carenza di affetto genitoriale.

Ma chi per primo si è reso conto di questo disagio è colui che, con la sua morte, ha dato origine agli eventi di Six Feet Under: Nathaniel Fisher sr.

six_feet_under_nathaniel_fisher

In apparenza non conosciamo molto di quest’uomo che compare quasi sempre come fantasma, pertanto il suo ritratto è filtrato dai ricordi e dalle visioni oniriche che i vari personaggi ci restituiscono. Eppure, soprattutto nella prima stagione, quando Nate si mette sulle tracce del suo passato, veniamo a scoprire il luogo in cui era solito organizzare festini con donne, a base di alcool e droghe. Non è difficile immaginare che quello fosse il rifugio di chi aveva vissuto gli orrori della guerra e che doveva continuare ad affrontare la morte ogni giorno, celandosi dietro la maschera di uomo affabile e guascone.

In sostanza Nathaniel senior si è fatto carico, sulle sue spalle, di tutte le debolezze che permeavano Casa Fisher e, con la morte, ha di fatto scoverchiato il vaso di Pandora. Tutti gli altri, da lì in avanti, sono stati costretti ad affrontare apertamente i propri limiti, senza nascondersi più dietro la sua figura imponente. Il suo lascito, prima ancora che la Fisher&Sons o l’iconica casa, è rappresentato proprio da questo vortice di insicurezza e solitudine, distribuito in parti uguali a ogni membro della sua famiglia (oltre che di tutte le figure sulle quali ha avuto in qualche modo influenza, come Federico).

Senza il capofamiglia a fare da scudo, è toccato a Nate diventare il punto di riferimento. Quel qualcuno da incolpare, come direbbe Sia nell’immortale canzone che fa da sottofondo agli ultimi minuti.

nate fisher six feet under

Il ritorno di Nate a Los Angeles ha permesso a David di recuperare il rapporto con suo fratello e a Claire di costruirlo dal principio. Ruth, molto probabilmente, non ha vacillato completamente in virtù della gioia di riavere il suo primogenito a casa. Lo stesso Nate ha dato un senso alla sua esistenza tornando a casa, imbastendo qualcosa di molto simile, seppur malsano e contorto sotto diversi aspetti, al concetto di famiglia. Fateci caso. Volendo individuare un risvolto positivo dalla morte di Nathaniel sr, è proprio il modo in cui questo ha permesso di dare un senso ai legami familiari. E di come, col senno di poi, abbia consentito a Nate di non morire solo come un cane.

Già, la morte di Nate. L’altro grande evento traumatico di Six Feet Under. Mai si era visto sul piccolo schermo un protagonista (perchè è innegabile che la Serie la si guardasse prima di tutto secondo la sua prospettiva) morire a quattro episodi dalla fine. Eppure è proprio questo a rendere Six Feet Under così reale, tangibile, vicina a noi: la capacità di esprimere concretamente l’imprevedibilità della vita. Nate muore per le complicazioni dovute al suo intervento e non c’è niente che si possa fare. Se non provare a onorarlo traendo il meglio dalla sua esperienza.

Che poi è quello che fanno i vari personaggi: si stringono attorno alle persone che amano. Di conseguenza, si avvicinano l’un l’altro.

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Nella morte di Nate, David Fisher trova la capacità di superare tutti i limiti della sua relazione con Keith e si appresta a crescere con lui i due figli adottivi. Nella morte di Nate, Ruth – che aveva toccato il punto più basso eclissandosi in campeggio con Hiram e perdendosi gli ultimi istanti di vita del figlio – trova conforto nell’amicizia di Bettina e in una relazione finalmente non morbosa con George. Nella morte di Nate, Brenda trova la forza di diventare una buona madre, pronta a farsi carico delle sue responsabilità. Nella morte di Nate, Claire Fisher trova, molto semplicemente, la sua strada.

È così che Six Feet Under spiega il senso della vita. La morte è catarsi, speranza di elevazione. Ma per i vivi, per chi rimane. Non c’è alcuna vita ultraterrena o, almeno, non ci è dato saperlo. La morte, per com’è descritta nella serie, si ripercuote esclusivamente su quelli che restano e sta a loro trarre il meglio da quell’esperienza. Ed è fondamentale, nella visione di Alan Ball, fare leva sull’opportunità di catarsi, non sulla matematica certezza di purificazione. La morte di Lisa, ad esempio, ha spinto Nate definitivamente sul baratro, invece di rappresentare un momento di riscatto.

Riscatto che, invece, i Fisher colgono appieno nell’atto finale, che poi è il prosieguo delle loro vite.

six feet under strada

Nel mentre Claire attraversa l’America a bordo della Prius, in un viaggio che simboleggia appunto il percorso della vita e la sua imprevedibilità, sulle note di Breathe Me, veniamo a conoscenza della sorte di ogni personaggio. In un lungo e struggente flashforward. Al netto di alcune morti premature (su tutte quella di Keith) balza all’occhio un aspetto: la famiglia Fisher è sempre più allargata e numerosa. Brenda conosce un altro uomo con cui ha un bambino; Durrell e Anthony, una volta cresciuti, si sposano con i rispettivi compagni; Claire  incontra nuovamente Ted e lo sposa: ogni lutto diventa effettivamente un’occasione per consolidarsi, per celebrare l’amore in tutte le sue forme.

Questo viaggio finale, disarmante nella sua semplicità, che ammiriamo attraverso gli occhi di Claire si conclude proprio con lei, l’ultima a morire, ormai centenaria. Ma nel suo sguardo non c’è sofferenza, solo serenità. Ha capito il senso della vita e della morte non appena ha smesso di essere una ragazzina problematica, segnata da tanti necrologi su sfondo bianco. Non appena è riuscita a trovare il suo posto nel mondo, consapevole di essere amata. Non appena ha capito di non essere sola, fino alla fine.

Be my friend, hold me
Wrap me up, unfold me
I am small, I’m needy
Warm me up and breathe me

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