Skins è un po’ come una Sachertorte: ricoperta di cioccolato fuori ma con all’interno un sorprendente strato di marmellata. Ovvero, superficialmente può sembrare banale (come il cioccolato), guardandola però con un occhio più critico si scopre che dietro un’apparente semplicità si cela uno studio antropologico veritiero e consapevole sull’adolescenza (ed ecco la marmellata).
Per me come la Sacher è la regina delle torte, così Skins è la miglior serie in circolazione sull’adolescenza.
È uno show che ha fatto scuola. Nessuno è riuscito a fare di meglio. Con la sua crudezza, il suo essere sporca, brutale e furiosa ha segnato la storia, raccontando l’adolescenza dei sobborghi senza edulcorarla.
Un paragone quasi necessario è quello con Thriteen, film iconico del 2003 con tema analogo. Appena uscito, Thirteen ha sconvolto l’intero pubblico. Senza peli sulla lingua e senza mezzi termini è riuscito a raccontare l’adolescenza più disastrata e ribelle, quella che nessuno ha mai voluto vedere.
Qualche anno dopo, nel 2007, Skins proverà a fare lo stesso ottenendo anche maggior successo. Ciò che colpisce è come sia riuscita a far breccia nel cuore degli adolescenti e allo stesso tempo venire aspramente criticata da coloro che possiamo definire “adulti”.
La voluta violenza visiva e verbale della serie porta a creare una certa empatia con chi in quell’incoscienza e voglia di ribellione si rivede, mentre fa storcere il naso a chi se ne vuole completamente dissociare. È per questo che la serie ha un valore socio-culturale fondamentale per le nostre generazioni. Non è una mistificazione di determinati atteggiamenti, quanto una denuncia nei riguardi di una società che ha voluto nascondere tutto sotto il tappeto.
Skins si è palesata sorprendentemente nella Tv di tutti i giorni, sbattendo in faccia agli spettatori una realtà che nessuno ha mai voluto vedere, così da far sobbalzare le famiglie più puritane facendo vacillare la fiducia nei loro apparentemente angelici figli.
La forza dello show è quella di riuscire a rappresentare una vastità di tipi psicologici, tutti diversi l’uno dall’altro. Ci pone davanti al muro delle relazioni interpersonali che – in un periodo delicato come l‘adolescenza – risultano essere quasi un muro invalicabile. Tra amori insoddisfatti, tradimenti e pugnalate alle spalle, Skins racconta di una tristezza insormontabile, un’insoddisfazione perenne e la necessità di fuggire. Queste sensazioni si riducono in un turbine di superalcolici e droghe sintetiche, simbolo della cultura occidentale degli anni 2000.
L’importante è non ridurre Skins a una semplice serie su adolescenti con problemi di dipendenze e disturbi mentali (tra i più gettonati depressione e problemi alimentari). Non si tratta di personaggi bidimensionali che si reggono solo sulle loro turbe mentali. Anzi, vengono descritti a tutto tondo, nel bene e nel male, tra le loro passioni più recondite e i loro sentimenti.
Nonostante una volontà quasi di denuncia, in Skins non c’è nessun tipo di morale, nessun tentativo di insegnarci qualcosa. È “semplicemente” una descrizione molto volgare della realtà.
Così con le sue inquadrature sporche, distaccate, senza alcun tipo di ricercatezza nelle luci o nella regia, è un manifesto del verismo e del realismo più puro. Come se fosse una realizzazione empirica e involontaria del Dogma 95 di Lars Von Trier.
Skins è una serie che piace proprio perché non ha troppe pretese, non si pone nessun obiettivo. Procede per la sua strada, con l’unico intento di raccontare e sconvolgere. Grazie a questo suo essere terribilmente distaccata, riesce a farsi spazio nel cuore dello spettatore. Segnandolo per sempre.