ATTENZIONE! L’articolo potrebbe contenere SPOILERS della serie tv Slasher.
Il genere slasher occupa un posto di rilievo nella storia del cinema horror, affermandosi come una delle forme più iconiche e controverse del racconto cinematografico. Contrariamente ad altri sottogeneri in cui la componente psicologica è predominante, lo slasher predilige la violenza visiva unita ad altri elementi tipici del thriller. Le radici dello slasher affondano nel cinema degli anni ’60 e ’70, con influenze che spaziano dai gialli italiani a film di matrice hollywoodiana.
Uno dei capostipiti riconosciuti è Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, che ha introdotto la figura del “killer psicotico” e le prime sequenze di omicidio particolarmente esplicite. La scena della doccia ha fatto la scuola del cinema e, per i tempi, rappresentò un momento di grande impatto visivo, seppur il sangue fosse tutto in bianco e nero. Allo stesso modo, Peeping Tom (1960) di Michael Powell è stato pionieristico nel rappresentare il punto di vista del carnefice, anticipando uno degli elementi diventati poi distintivi dello slasher movie.
La consacrazione del genere avviene, tuttavia, con Halloween (1978) di John Carpenter. Nel film, il villain Michael Meyers diventa archetipo del serial killer cinematografico.
Sue caratteristiche peculiari sono la maschera e il coltello da macellaio che verranno poi ripresi, in chiavi differenti, da altri illustri “colleghi”: Freddie Krueger con il borsalino e le lame al posto delle dita; Jason Voorhees con la maschera da hockey e il macete; Leatherface con la motosega. In contrapposizione al killer, negli slasher movie diventa poi imprescindibile la figura della “final girl” (la protagonista, solitamente vergine, che sopravvive fino alla fine). Solo lei, infatti, possiede le caratteristiche morali e psicologiche per poter affrontare il mostro e uscirne viva. Intelligenza, coraggio e purezza d’animo sono le armi utilizzate dalla final girl per fronteggiare il killer. Tutte peculiarità che la distanziano dalla masnada di coetanei, per lo più adolescenti, il cui comportamento è invece spesso associato a peccati o trasgressioni.
Gli anni ’80 rappresentano l’età d’oro dello slasher, con franchise iconici come, appunto, Friday the 13th (1980), A Nightmare on Elm Street (1984) e Hellraiser (1987). Durante questo periodo, i film slasher hanno raggiunto il loro apice commerciale, diventando una sorta di rito di passaggio.
Negli anni ’90, il genere va incontro a una svolta decisiva. Scream (1996), una delle saghe cinematografiche più innovative degli anni Novanta, punta a un approccio meta-narrativo, ironizzando sulle regole del genere. I protagonisti conoscono il genere horror, ne sono appassionati persino e, per questo motivo, conoscono anche il canone e i cliché. Sidney Prescott è una final girl atipica, così come lo è anche il killer che si nasconde dietro la maschera di Ghostface. Dopo un periodo di stasi, quindi, il genere slasher si rinnova grazie a opere che mescolano tradizione e innovazione.
Nel XXI secolo, lo slasher ha subito ulteriori trasformazioni, adattandosi alle nuove sensibilità del pubblico. Film come The Cabin in the Woods (2012) hanno decostruito le convenzioni del genere, mentre remake e reboot come Halloween (2018), diretto da Rob Zombie, hanno cercato di modernizzare i classici per una nuova generazione.
Nomen omen. Nel 2016 approda in tv la serie canadese Slasher, creata da Aaron Martin come evidente omaggio proprio al sottogenere della cultura horror. Slasher si rifà, infatti, direttamente ai tropo del genere cinematografico, ma li aggiorna al formato seriale, sfruttando la durata maggiore per approfondire i personaggi, le loro storie e i loro traumi. Ogni stagione si sviluppa attorno a un mistero centrale, con un assassino mascherato che si muove secondo un modus operandi specifico, uccidendo i personaggi uno a uno. La narrazione si concentra anche sui segreti e sui peccati delle vittime, rendendo gli omicidi parte di una sorta di “giustizia morale” per i loro comportamenti passati. In Italia, sono state doppiate solo le prime tre stagioni (le trovate tutte sul catalogo Netflix qui), mentre la quarta e la quinta rimangono tuttora inedite.
Nato come stand-alone, Slasher si rivela tutto ciò che i fan del genere avrebbero mai potuto desiderare da una produzione seriale. E così vengono prodotte le altre stagioni trasformando Slasher in una serie tv antologica.
La prima stagione, intitolata “The Executioner”, è ambientata nella cittadina immaginaria di Waterbury e vede protagonista Sarah Bennett. Da giovane Sarah ha assistito alla morte dei genitori, brutalmente assassinati la notte di Halloween da un killer vestito da boia. Quando, molti anni dopo, la città è colpita da una nuova ondata di efferati omicidi, Sarah si rende conto che chiunque sia il nuovo assassino segue un tema basato sui sette peccati capitali. Nel 2017 è la volta di “Guilty Party”. In questa stagione, un gruppo di ex amici torna in un campo estivo abbandonato per recuperare un corpo che avevano nascosto tempo prima. Una volta lì, però, un misterioso assassinio, che sembra conoscere i loro segreti più intimi, li prende di mira uno a uno.
La terza e ultima stagione disponibile sul catalogo Netflix, “Solstice”, è decisamente più violenta e cruda rispetto alle precedenti. All’interno di un condominio, un ragazzo viene assassinato con ferocia davanti al suo palazzo, sotto gli occhi di numerosi testimoni immobili e silenziosi. Dodici mesi più tardi, l’orrore torna a sconvolgere lo stesso complesso residenziale quando l’assassinio, noto come il Druido, torna a colpire. Mentre le tensioni tra i vicini portano alla luce pregiudizi e ostilità latenti, la giovane Saadia sembra l’unica innocente che possa sfuggire alla furia omicida del druido.
La prima stagione è un vero gioiello per gli appassionati del genere: omicidi brutali che non risparmiano dettagli, un assassino dal volto mascherato e iconico, e un ritmo incalzante che tiene con il fiato sospeso dall’inizio alla fine.
“The Executioner” rimane fedele alle sue origini, riuscendo a dilatare la formula slasher per il formato televisivo. Il boia è un villain spaventoso e sadico e il suo personale legame con la protagonista permette di esplorarne maggiormente le ragioni. Il “whoddunit”, domanda alla base forse di ogni slasher movie o thriller che si rispetti, porta a una risposta esaustiva ed efficace. Il killer ha un volto e un nome si, ma non solo. Ha anche un background, un trauma e un movente legittimo, anche se folle.
Strizzando l’occhio ai predecessori famosi, il Boia è un killer da manuale destinato a rimanere nella memoria. Riprende tutte le peculiarità tipiche del genere: dalla maschera all’arma prediletta, fino al modus operandi che, in questo caso, si lega alla materia religiosa. I sette peccati capitali (già adoperati sapientemente da David Fincher nel suo Se7en) vengono usati come base per ideare e orchestrare le uccisioni, donando profondità e simbolismo all’intera narrazione. Lo show non si fa poi remore di esplorare tematiche forti e anche delicatissime.
Laddove, però, la prima stagione riserva ancora un posto all’introspezione psicologica dei protagonisti e, soprattutto, della sua final girl, le stagioni successive decidono di abbracciare totalmente il gore.
I personaggi diventano macchiettistiche figure ripescate dagli esempi di serie B del genere, in un susseguirsi di azioni e reazioni ai limiti del possibile. Ma soprattutto ai limiti del tollerabile. In moltissime situazioni, infatti, Slasher decide di abbandonare totalmente la strada della logica per imboccare quella del no sense estremo. I personaggi finiscono per comportarsi e parlare in maniera del tutto irrealistica, persino per gli standard dello slasher. Gli elementi tipici del genere vengono esasperati, persino il colpo di scena finale della seconda e della terza stagione non può essere considerato tale.
“Guilty Party” non si preoccupa nemmeno di procurare una maschera decente al suo killer, troppo impegnato a cercare un twist scioccante che avrebbero benissimo potuto scrivere gli sceneggiatori di Boris. L’utilizzo del flashback abbonda qui come anche in “Solstice”, nel tentativo di costruire una trama che non sia necessariamente lineare. La stessa trama rimane, in fin dei conti, povera e striminzita. Le motivazioni del Druido numero 1 e numero 2 sono banali, scelte a casa dal manuale del serial killer “for dummies”. I veri mostri in “Solstice” sono le vittime, peccato che il messaggio non passi mai a pieno, a causa anche di una parterre di attori più inclini all’ululato che alla recitazione.