ATTENZIONE: l’articolo contiene spoiler sulle quattro stagioni di Slow Horses!!
Slow Horses è una delle serie tv migliori che vedrete su Apple TV+. Adrenalinica, scorretta, potente, sudicia e meravigliosa. L’offerta della piattaforma presenta un ventaglio di titoli che varrebbe davvero la pena guardare dall’inizio alla fine. Il materiale finora rilasciato da Apple TV+ è di ottima qualità, almeno per gran parte dei prodotti presenti nel catalogo. Tra questi, spicca appunto Slow Horses, una serie tv britannica basata sui romanzi di Mick Herron. È uscita nella primavera del 2022 ed è già alla sua quarta stagione (una quinta è stata già confermata e arriverà nei prossimi mesi). Ma nonostante i rinnovi e l’ampio successo di pubblico in patria, in Italia lo show è ancora un prodotto di nicchia.
La serie si diffonde fondamentalmente con il passaparola. Ha catturato l’attenzione degli utenti della piattaforma, ma resta ancora lì, come un oggetto misterioso che conoscono in pochi. Se ne parla poco, non attira discussioni che vadano oltre il perimetro della fanbase di riferimento. È una serie tv di nicchia, a tutti gli effetti. Chi l’ha vista ne tesse gli elogi, ma sono ancora in pochi ad averci ficcato il naso. Perché? Tra i fan dello show si è convinti che la colpa sia della piattaforma. Apple TV+ non è ancora da considerarsi un servizio mainstream, almeno non quanto Netflix. Secondo gli appassionati di Slow Horses, se lo show fosse sbarcato su Netflix, avrebbe avuto una visibilità di gran lunga maggiore e, di conseguenza, una fetta di fedelissimi molto più ampia.
Ma il discorso sta in piedi solo fino a un certo punto.
È vero che in Italia Netflix è garanzia di maggiore visibilità. Ma questo non spiegherebbe come titoli come Ted Lasso e Silo e le migliori serie tv presenti sulla piattaforma secondo IMDb abbiano avuto grande successo anche nel nostro Paese. Più che sulla scelta della piattaforma, le ragioni della scarsa attenzione rivolta a Slow Horses, andrebbero ricercate altrove. La serie con Gary Oldman, Jack Lowden e Kristin Scott Thomas dà una bella spallata al politicamente corretto. È una spy story atipica, che assalta le convenzioni e demolisce i cliché del genere. Protagonisti sono uno stuolo di agenti sfigati e disadattati, che lavorano in un luogo sudicio e dimenticato da Dio chiamato Il Pantano.
Niente a che vedere con le basi operative delle spie ultratecnologiche e ultradotate della tv. Nessun dispositivo per il riconoscimento facciale, nessun particolare sensore, niente stanze immense con le pareti ricoperte di computer di ultima generazione. Il Pantano si è fermato all’era dell’analogico. A parte un nerd con seri problemi di socialità, il resto della squadra maneggia a malapena gli smartphone. È tutto sporco, insudiciato, lercio. Si tratta di un luogo ristagnante, che rispecchia in tutto e per tutto la figura del suo capo, uno strabiliante Gary Oldman (il nuovo Albus Silente nella serie Harry Potter?) in versione vecchia spia in dismissione.
Jackson Lamb è il vero diamante di Slow Horses.
Un personaggio volgare, sporco, sgarbato, triviale. Un agente segreto che ha fatto il suo tempo e che è stato mandato a svernare in una topaia, insieme a reietti e falliti. È maleducato e scortese, completamente privo di tatto. Giacca sudicia, capelli sporchi, respiro affannoso, calzini bucati: Jackson Lamb è la cosa più lontana da un agente segreto che vedrete in televisione. In questo, Slow Horses ha saputo ribaltare i canoni tradizionali delle spy story affidandosi a personaggi anticonvenzionali, miserabili carcasse spogliate della propria dignità e mandate a fare il lavoro sporco nelle brevi pause all’indolenza quotidiana. Slow Horses non è una serie per tutti. E forse per questo in Italia non sta ancora spopolando.
Lo show con Gary Oldman ha innumerevoli pregi e pochissimi difetti. In una Londra dal doppio volto – moderna e frenetica vista dagli uffici di Regents Park, ristagnante e oscura nella periferia del Pantano – prendono corpo le disavventure degli agenti dell’MI5, il servizio di intelligence della Gran Bretagna. Da una parte ci sono questi 007 sempre in movimento, focalizzati ogni volta sulla nuova emergenza. Eleganti, dinamici, con una nuova risorsa sempre a portata di mano. Dall’altra ci sono gli uomini Jackson Lamb, relegati in un edificio cadente, costretti alle mansioni più degradanti. La sceneggiatura è impeccabile e prende ritmo episodio dopo episodio.
Ogni stagione di Slow Horses è migliore della precedente.
I romanzi di Mick Herron sono un’ottima base di partenza per uno sceneggiatore. Ma il ritmo e la caratterizzazione dei personaggi sono gli elementi che rendono il prodotto televisivo accattivante e godibile. Non ci si annoia mai a guardare una stagione di Slow Horses. Ogni capitolo presenta una minaccia diversa da affrontare: un gruppo di ultradestra che rapisce un aspirante comico musulmano, vecchie spie sovietiche con dei conti in sospeso con l’Occidente, agenti corrotti con dossier scottanti da far sparire, minacce terroristiche e nemici dappertutto. Ogni stagione è autoconclusiva ed è composta da sei episodi, una scelta che si rivela azzeccatissima per mantenere viva l’attenzione del pubblico ed evitare cali di tensione.
Slow Horses è un’opera televisiva che sa come intrattenere lo spettatore, inchiodandolo allo schermo nell’ansia di capire quale epilogo avrà la storia. Ma allora perché questa serie non è diventata immediatamente un fenomeno anche in Italia? Forse perché non siamo ancora pronti a qualcosa di così corrosivo e tagliente (se vi interessano le spy stories, ecco le migliori 10 che potete trovare su Netflix). Il personaggio di Jackson Lamb non è stato costruito esattamente sul prototipo di James Bond. L’idea che ci siamo fatti delle spy stories, basata su decine e decine di produzioni cinematografiche che hanno contribuito ad alimentarne il mito, va completamente rivista. River Cartwright e gli altri agenti del Pantano sono individui fallibili.
Commettono errori di distrazione, dimenticano documenti riservati sul vagone del treno, prendono a pugni i propri superiori, fanno valutazioni grossolane e sono costante oggetto di derisione da parte dei colleghi del Park.
È tutto molto distante dall’immagine rassicurante di uno James Bond che cade sempre con i piedi per terra. In Slow Horses non esistono eroi, non esistono buoni che danno la caccia ai cattivi. È un’immensa zona grigia dove si muovono anche figure poco interessanti, con vite normali, problemi con l’alcol, la droga, il gioco d’azzardo, la socialità. Nipoti preoccupati per lo stato di salute dei nonni, agenti che muoiono in bicicletta, senza nessuna battuta ad effetto ad accompagnarli ai titoli di coda. Ragazzi insicuri, scorbutici, alle prese con difficoltà economiche e problemi familiari. Stimati dirigenti in pensione paralizzati dalla demenza, vecchie volpi dello spionaggio che vanno incontro a una fine ordinaria.
La serie di Apple TV+ parla di individui che arrancano nella loro fallibilità, un giorno per volta. E lo show riesce a parlarne senza un briciolo di tatto, in maniera sgarbata, urtando il politicamente corretto a ogni battuta. Abituati al filtro cinematografico, che ci ha propinato storie di uomini eccezionali e dalle mille risorse, una vicenda umana impostata alla maniera di Slow Horses diventa inconsueta, atipica. Dovremmo scrollarci di dosso tutto il magnetismo di personaggi come James Bond e consegnarci ai passi falsi di River Cartwright, alla pruriginosità di un individuo come Jackson Lamb o alla frustrazione di Louisa Guy per entrare in connessione col mondo di Slow Horses.