Benvenuti dall’altra parte, dove essere spia è essenzialmente cibo spazzatura d’asporto e birra a temperatura ambiente. Il tutto è solo il suo contrario. Benvenuti nel peculiare metaverso di Slow Horses, dove il mondo non ha contatti con la virtualità. Non confina con l’illusorio ma è totalmente immerso nella precarietà del reale e in tutte le sue declinazioni. James Bond non è un vicino di casa. Non condivide con Il Pantano (Slough House, la sede degli Slow Horses) lo stesso regolamento condominiale de “Il perfetto agente di spionaggio”. Jackson Lamb (un sempre più carismatico Gary Oldman) non ama i manuali. Non li legge, non li segue. Il suo regolamento dipende da come si alza la mattina. E non si alza mai di buon umore, né con voglia di socializzare. Jackson Lamb è un amministratore apparentemente distratto che governa il condominio degli Slow Horses nella periferia nord di Londra.
Sempre a rischio destituzione, grande potere demotivante nell’apostrofare con spirito tagliente i suoi sottoposti. Sciatto e inconsapevole dell’esistenza delle lavanderie, concentrato su se stesso, sensibile come un rullo compressore che passa su tutto e tutti. Senza badare ai legami interpersonali. Neanche una briciola di fascino, nessun cromosoma in comune con James Bond. Lo spionaggio a 32 pollici non può contenere lo charme di una spia che ha un nome in codice numerico. Elegante, ammaliatore, manipolatore, atletico, che svolge il suo lavoro coadiuvato dalle tecnologie più avanzate.
Spie come loro
Eppure nella terza stagione di Slow Horses lo schermo televisivo si espande e ospita Istanbul. Una città simbolo nelle storie di spionaggio, inseguimenti, scene d’azione. Ma anche parecchie vittime tra buoni e cattivi, uno spicchio di taglio cinematografico dell’epica spionistica entra e si accomoda nelle trame di Slow Horses. Una breve visita dello spirito guida di James Bond. Con la terza stagione (con una quarta in arrivo e una quinta in embrione), Slow Horses entra di diritto nelle migliori serie tv di spionaggio minando lo scettro a Netflix. Il biglietto da visita del nuovo corso della serie è nei primi dieci minuti. Come ogni film di genere che si rispetti, Istanbul entra nella narrazione con le voci dei muezzin e la coppia di spie che ha già infranto la regola d’oro “mai stabilire legami sentimentali tra colleghi”.
Dalla quiete apparente al classico inseguimento che utilizza tutti i mezzi di trasporto a disposizione il passo è breve. Dieci minuti che fanno quasi pensare di avere sbagliato serie, e invece il bello è proprio lì. La contrapposizione di un gioco spionistico che si intuisce ad alti livellI con la squadra annoiata di Slow Horses. River Cartwright (Jack Lowden) consacrato all’archiviazione di pratiche molto probabilmente inutili. Louisa Guy (Rosalind Eleazar) inerte e incurante di tutto per la perdita del collega Min Harper con il quale aveva iniziato una relazione (addio regola d’oro). Roddy Ho (Christopher Chung), il nerd del gruppo, che è interessato solo ai videogiochi e a incontri ravvicinati con il sesso femminile. Catherine Standish (Saskia Reeves), l’unica ancora dedita al lavoro, che cerca di dare un senso alla routine quotidiana. L’anello debole ma anche l’unico importante per Jackson Lamb.
Lo spionaggio 2.0 incontra la versione dimezzata e dal tono british di Quella Sporca Dozzina.
Il confronto tra i due mondi potrebbe far pensare ad un esperimento da Dr Frankenstein, un mostro a due teste. Invece l’incastro è totale ed esalta il meglio dei due universi.
La squadra di Jackson Lamb, le sue spie per caso, offre continui spunti ironici. Un fuoco incrociato tra le battute dissacranti di Lamb, da trincia stima, alle goffaggini e conclamate sfortune di River. Da chi? Dalla male assortita coppia di colleghi Marcus (Kadiff Kirwan) e Shirley (Aimee-Ffion Edwards), così focalizzati sui propri vizi da non ricordarsi quasi più quale sia veramente il loro mestiere a Roddy. Costretto ad abbandonare i suoi monitor extra large e ridimensionare il suo ego alle dimensioni di un tablet, quando gli capita di entrare in azione. Una squadra che ha il sottile potere di rischiare di far andare male le cose anche in condizioni ottimali riuscendo sempre ad uscirne fuori, mai da vincitori. Il podio è sempre dei poteri forti che si contendono la prima scrivania dell’organizzazione.
Diana Taverner (Kristin Scott Thomas) resta sempre il deus ex-machina, anche nei momenti in cui viene appannata dalla sua rivale Ingrid Tearney (Sophie Okonedo). Jackson Lamb non ha il fisico di James Bond, flirta con la sua stessa mancanza dei minimi livelli di igiene personale con grande naturalezza. Così come si rapporta con Taverner, senza paura, conoscendo bene tutte le sotto trame. Non si scompone (quasi) mai come il cocktail Martini di James Bond, agitato ma non mescolato. Mai parte veramente di qualcosa ma capace di scivolarci dentro fino al punto massimo del non ritorno.
Ecco, Slow Horses è diventato il nostro cocktail Martini seriale servito da Lamb, Jackson Lamb.