Lotta di classe, diseguaglianze e rivoluzione: non sono esattamente i cavalli di battaglia dello storytelling americano, eppure è ciò di cui si parla in Snowpiercer, serie prodotta dall’emittente TNT e distribuita da Netflix. E in effetti l’impianto della storia raccontata da Graemen Manson non è made in USA, ma ricalca quello dell’omonimo film di Bong Joon-Ho, che è a sua volta ispirato alla graphic novel firmata da Jacques Lob e Jean-Marc Rochette.
La cornice entro cui i fatti si svolgono è un futuro postapocalittico in cui ciò che resta dell’umanità ha reagito alla glaciazione barricandosi all’interno dei 1001 vagoni dello Snowpiercer, treno progettato per girare ininterrottamente fino al giorno in cui le temperature non torneranno a innalzarsi. I passeggeri più ricchi sono saliti a bordo muniti di biglietto, mentre i meno abbienti hanno assalito le carrozze e si sono accaparrati un posto sfidando i proiettili del personale preposto alla sorveglianza. Le due categorie vanno a costituire rispettivamente la prima classe, dotata di mezzi e risorse in abbondanza, e il cosiddetto Fondo, i cui abitanti vivono – e muoiono – di ristrettezze e di stenti, ammassati come capi di bestiame e vessati da una sicurezza che reprime con la forza ogni tentativo di ribellione.
Nel mezzo, a completare un quadro che è specchio della piramide sociale eretta dal capitalismo, gli impiegati della seconda classe e i proletari della terza, il cui lavoro è indispensabile al funzionamento del treno. A tenere le fila del microcosmo su rotaie è Melanie Cavill, capo dell’accoglienza e voce di quell’altoparlante tramite cui vengono dispensate volontà e disposizioni del signor Wilford, fantomatico creatore del treno che non si mostra ai passeggeri dal giorno della partenza.
La vita sullo Snowpiercer viene turbata da una serie di delitti.
Tali delitti chiamano in causa Andre Layton, ex detective investigativo che Melanie tira fuori dal Fondo affinché faccia chiarezza sul mistero da cui i casi sono avvolti. Lo svolgimento delle indagini porterà allo smascheramento dell’inganno che sta dietro alla figura di Wilford e sarà la scintilla che darà fuoco alla miccia della rivoluzione.
Malgrado l’introduzione di una componente crime, che di fatto è il motore della narrazione, l’aspetto più interessante dell’adattamento seriale di Snowpiercer resta il nucleo tematico attorno a cui le vicende si dispongono: la riproposizione delle dinamiche di potere che strutturano la nostra società, con tutte le implicazioni che esse comportano e gli effetti collaterali che generano. Nella realtà gerarchizzata dello Snowpiercer ognuno utilizza le armi messe a disposizione dallo status di appartenenza per perseguire il proprio utile: si va dai magnati di prima classe che dettano l’agenda del treno con il peso della loro influenza fino ai semplici frenatori che fanno leva sui bisogni dei fondai per estorcere loro favori sessuali, in un circolo vizioso di soprusi perpetrati e subiti.
Ma la condizione dei viaggiatori nati dalla parte giusta del mondo – o meglio, saliti sui vagoni giusti del treno – è meno appagante di quanto il lusso sfavillante vorrebbe far credere: il tedio di un’esistenza i cui benefici sono confinati nel perimetro ristretto di una carrozza è ciò che spinge la giovane LJ Folger a progettare gli omicidi, innescando così la catena di avvenimenti che andrà a demolire i presupposti su cui poggiava il potere della sua stessa famiglia. Quelli che sembravano essere solidi equilibri, dunque, si rivelano trame instabili e precarie, pronte ad essere sfilacciate dalla voglia di riscatto del Fondo, dallo spleen che attanaglia la prima classe e dai segreti posti da Melanie a tutela del treno e della sua corsa.
La storia dello Snowpiercer sfata quei miti fabbricati artificialmente e venduti come dettami sacri e inviolabili: non solo quello di Wilford, emblema del culto dell’autorità a cui sottostare a ogni costo e senza margini di contestazione, ma anche quello dell’ordine e del rigore imposti nel nome di una coesione sociale che si traduce in tutela dei privilegi e garanzia delle ingiustizie. La stessa Melanie è costretta a riconoscere il fallimento del sistema:
È proprio su questo che mi sbagliavo: l’amore è la cosa più importante di tutte.
Un’ammissione di colpa in cui sono racchiusi tutti i limiti di una visione ultrarazionalistica che nel tentativo di preservare l’umano finisce per svuotarlo di senso fino a eradicarlo completamente, in favore di una sopravvivenza per cui tutto è lecito e niente è questionabile. Snowpiercer non cade nel cliché della nobile causa usata come pretesto per assecondare manie di grandezza individuali o per sostituire un regime con un altro che dietro la maschera del cambiamento nasconde un volto dispotico tanto quanto quello che è andato a soppiantare: la causa del Fondo è quella di un corpo collettivo mosso da principi realmente egualitari e con obiettivo quel mondo giusto che nel finale pare in via di realizzazione.
La domanda a cui la seconda stagione si appresta a rispondere – che è poi quella che ha segnato gli esiti di tutte le grandi rivoluzioni – è la seguente: una volta che ci si è disfatti del vecchio mondo, come si fa a edificarne uno nuovo?
Le fondamenta saranno abbastanza solide da reggere o crolleranno ancor prima che la costruzione giunga al termine? L’ingresso in scena di Wilford è l’incognita pronta a complicare ulteriormente un’equazione già di per sé difficile da risolvere.
Se c’è una cosa che Snowpiercer avrebbe potuto – e dovuto – fare meglio è calibrare più opportunamente la gestione dei tempi narrativi, che spesso sembrano allungati a uso e consumo del minutaggio. Un minor numero di episodi non sarebbe stato soltanto sufficiente, ma addirittura auspicabile, per conferire agli sviluppi maggior compattezza e consentire all’investigazione di procedere a ritmi più serrati. Il filone poliziesco finisce per dipanarsi in maniera lenta e monotona, senza riuscire nell’intento di mantenere alta la tensione né di intrattenere.
Quanto ai personaggi, la maggior parte appare come incapace di trascendere il ruolo che ricopre, tolta la splendida eccezione di Melanie che con le fragilità e i rimpianti celati dalla sua apparenza rigida si impone come carattere vero e a tutto tondo. Per spiegare perché non sia possibile dire lo stesso degli altri, prendiamo a esempio il caso di Josie: il sacrificio che compie per i suoi compagni è sicuramente d’impatto, ma gli spettatori non ne sarebbero stati maggiormente colpiti se la sceneggiatura avesse dato modo di conoscere la persona posta dietro la facciata della sovversiva pronta a tutto per la riuscita della missione? La personalità di Josie non emerge da alcun elemento di scrittura e questo la rende distante, una sagoma di cartone più che un individuo in carne e ossa.
La funzionalità rispetto all’intreccio è un fattore importante, ma non è l’unico su cui ci si possa basare per regalare al pubblico personaggi in grado di lasciare il segno: occorrono introspezioni tramite cui sviscerarli, approfondimenti che li svelino, dettagli che concorrano a definirne l’autenticità. Da questo punto di vista la seconda stagione – dalla quale ci aspettiamo una risposta alle cinque questioni irrisolte che abbiamo individuato in questo articolo – rappresenta sicuramente un’occasione da cogliere.