Il finale della prima stagione di Snowpiercer, serie post apocalittica ispirata all’omonimo film del regista premio Oscar Bong Joon-ho, aveva consegnato al pubblico una serie di questioni irrisolte che sembravano promettere bene in merito al prosieguo della storia. Il pilot aveva alimentato le aspettative gettando premesse ricche di potenziale: un nuovo assetto organizzativo da far funzionare, un nuovo nemico da affrontare, una nuova missione da portare a termine nella speranza di ricolonizzare la Terra. La fiducia pareva ben riposta, ma oltrepassata la soglia di metà stagione l’ottimismo iniziale comincia ormai ad arretrare, cedendo il passo a un netto sentore di insoddisfazione.
Significa che qualcosa non sta funzionando in questa seconda stagione di Snowpiercer. Cerchiamo di capire cosa.
Invece di far corrispondere a quei nuovi presupposti un rinnovamento dell’impianto narrativo, la sceneggiatura ha riciclato una serie di schemi già impiegati nella prima stagione. L’aggressione ai danni di una ex fondaia e le indagini condotte da Bess richiamano il filone investigativo che ha portato Layton ad essere reclutato per risolvere gli omicidi avvenuti in prima classe, e la missione che Josie porta avanti come infiltrata a bordo della Big Alice ha gli stessi tratti di quella che l’ha vista agire sotto copertura per conto del Fondo. Con questa struttura il copione finisce inevitabilmente per risultare ripetitivo.
Le dinamiche congenite al treno sembrano quasi scomparire tra le maglie dell’intreccio formato da queste sottotrame.
Se era lecito aspettarsi che le suddette dinamiche evolvessero per effetto della rivoluzione, non lo è il fatto che occupino un ruolo così secondario rispetto all’economia della storia. La marginalità a cui sono ridotte è testimoniata dal percorso individuale di Melanie, tutto incentrato sulla rivalità con Wilford e sul recupero del suo rapporto con quella figlia inaspettatamente ritrovata. Questioni senza dubbio cruciali per il personaggio, che non potevano non essere affrontate; ma che in un episodio introspettivo dedicato alla ex voce del treno non si apra una finestra sulle atrocità perpetrate ai danni dei fondai per sette lunghi anni sembra quantomeno manchevole.
La speranza che la seconda stagione di Snowpiercer potesse costituire una vetrina migliore per i tanti personaggi che si muovono a bordo del treno è stata anch’essa delusa. I pochi momenti di approfondimento psicologico disseminati qua e là non bastano a compensare la generale mancanza di introspezione che continua a persistere all’interno della narrazione.
Caso emblematico è quello di Andre Layton, la cui prospettiva risulta del tutto assente. La leadership che l’ex detective si è ritrovato a dover sostenere lo sta mettendo di fronte a scelte che minano la sua integrità, eppure il conflitto che si suppone star vivendo non viene per niente evidenziato. Lo vediamo agire meccanicamente, senza che il suo operato sia filtrato da reazioni di alcun tipo. È questa la resa che spetta a quello che sulla carta è il protagonista della storia?
Wilford è un tasto particolarmente dolente, perché il personaggio interpretato da Sean Bean avrebbe tutte le carte in regola per funzionare. Dotato di un innegabile carisma, il creatore dello Snowpiercer è temibile e autoritario, ma è anche volubile, pieno di pulsioni pronte a trasformarsi in altrettante debolezze tramite cui attaccarlo. Basti guardare all’ossessione che nutre per Audrey e al modo in cui se ne lascia risucchiare.
Abbiamo assistito a momenti estremamente forti, con protagonisti personaggi indotti al suicidio dal suo semplice volere, ma l’impatto di certe scene non può sostituirsi alla genesi psicologica di quest’inquietante influenza, anzi: rende ancora più necessario ripercorrerla e sviscerarla. Se quella che ci è stata mostrata è una superficie che attende di essere scalfita allora va bene, ma in caso contrario si tratta di un esempio di narrazione che punta sulla suggestione invece che sulla sostanza.
Potremmo perdonare alla seconda stagione di Snowpiercer di non essere qualitativamente eccellente se fosse quantomeno godibile, ma la verità è che lascia a desiderare anche sul piano del puro intrattenimento. Lo fa per via di una narrazione esasperatamente attendista, sempre impegnata a gettare premesse che sfociano in risvolti poco o per nulla incisivi. Se dopo il sesto di dieci episodi abbiamo l’impressione che le vicende non siano ancora entrate nel vivo c’è sicuramente qualcosa che non va nella scansione dei ritmi.
La storia è un elettrocardiogramma piatto che non abbandona la linearità tracciata dal suo percorso. Non offre guizzi, non un’accelerata, non un momento in grado di far trepidare o capace di entusiasmare.
Snowpiercer si limita a eseguire il compitino con il quale aggiudicarsi un tranquillo sei in pagella, ma in questo modo il voto che finisce per ottenere è decisamente più basso della sufficienza. Una serie con tematiche ambiziose come quelle affrontate dalla novel di Jacques Lob e Jean-Marc Roquette non può accontentarsi di un’attuazione così piatta e basilare. Lo Snowpiercer è teatro di conflitti laceranti, è simbolo di ideali la cui valenza oltrepassa ampiamente il perimetro tracciato dai vagoni: se la rappresentazione di un siffatto oggetto manca di potenza, allora non può dirsi riuscita.