“È assai più sicuro un incontro a mezzanotte con un fantasma esterno piuttosto che incontrare disarmati il proprio io in un posto desolato”, scriveva Emily Dickinson, ammettendo forse una delle più grandi vulnerabilità dell’anima. Non è forse vero, in fondo, che scendere a patti con se stessi e le proprie solitudini è quanto di più spaventoso possa accadere? Quando siamo soli con il nostro riflesso siamo nudi, spogliati di ogni maschera. Davanti a noi solo il passato da cui non riusciamo a fuggire, i conflitti che combattiamo ogni giorno dall’intero e i tasselli – belli e brutti – che compongono il quadro di ciò che siamo. A volte quel riflesso ci piace, a volte ci terrorizza, ma più di tutto ci fa sentire soli con noi stessi, anche se non lo siamo mai davvero. Su queste premesse si fonda Solos, serie antologica di Amazon Prime Video firmata David Weil, attraverso gli scenari di un futuro capace di raccontare il nostro presente.
Sci-fi di nascita e dissertazione sull’animo umano per vocazione, Solos s’interroga e ci interroga sulla vulnerabilità della vita, sui moti della memoria e sulla reale conoscenza che abbiamo di noi stessi.
E per farlo sceglie sette personaggi in lotta con il proprio vissuto, con paure e speranze, con i rimpianti a cui non possono porre rimedio come vorrebbero e con quelle vittorie che custodiscono come regalo dell’esistenza. La tecnologia, lo scenario di un futuro fatto di viaggi nel tempo, nello spazio e nei ricordi altrui sembrano quasi sbiadire e perdere d’importanza di fronte all’universalità delle esperienze umane che prendo posto al centro della scena.
Ogni storia è una diversa prospettiva della ricerca di se stessi: le occasioni mancate e gli anni scivolati via in modo spaventosamente inconsapevole di Peg e l’impossibilità di tornare indietro per mettere se stessi al primo posto, il domani che spaventa Tom e lo costringe a trovare il modo di aggirare la morte, le scelte che si sono rivelate dolorose nonostante il tentativo di predire il futuro di Leah, il mondo che spesso ci appare troppo estraneo per poterci appartenere come avviene per Sasha, il dilemma che vivono Nera e suo figlio – quello di essere diversi da ciò che gli altri si aspetterebbero e di veder messo in discussione il loro diritto a esistere. La vita spezzata di Jenny che si inceppa sull’unico giorno che vorrebbe estirpare dalla memoria e i ricordi di Stuart che non gli appartengono e che usa per seppellire qualcosa a cui non ha il coraggio di pensare.
Sono tutte sensazioni e vicissitudini che ci accomunano, andando al di là degli assoli disperati di Solos e giungendo fino a noi, attraverso uno schermo che finisce per diventare specchio.
Le claustrofobiche guerre interiori che si sviluppano in queste immagini di un futuro non troppo lontano si denudano di ogni orpello – espedienti narrativi, ambientazione, circostanze relative al personaggio – per diventare storie comuni. Storie che appartengono a chi si trova a fare da spettatore di ogni assolo tanto quanto ai protagonisti. E così, come abbiamo già visto accadere in Tales from the Loop, la fantascienza e la tecnologia si fanno strumento ideale per osservare da vicino le infinite declinazioni dell’umanità e delle sue imperfezioni.
Ciascuna di queste debolezze induce i personaggi di Solos in un errore comune: credersi completamente soli nella propria esperienza.
Basterà una mezz’ora a confronto con se stessi per accorgersi che non è davvero così, che esiste un appiglio in ogni solitudine ed è la consapevolezza che le emozioni che ci colpiscono, anche le più violente e le più brutali, ci rendono tutti simili in qualche modo, tutti umani. Nel passato e nel presente, come nel futuro.
Senza trama, a volte persi in elucubrazioni lunghe e contorte di cui si rischia spesso di perdere il filo, ogni episodio porta in scena due temi che si fondono inestricabilmente con l’esperienza umana: memoria e tempo. D’altronde di cosa siamo fatti, in quanto individui, se non di percezioni di accadimenti che scandiscono la nostra vita e del ricordo di questi? Chi siamo se non ricordiamo le nostre esperienze, il nostro vissuto, e se gli altri non si ricordano di noi? Tutto verte verso l’eterna domanda a sull’identità, sul nostro io, e su come sia possibile conoscersi davvero.
Quello che ci lasciano queste mezz’ore di solitudini umane è la possibilità di prenderci un momento, estrapolato dal resto delle nostre giornate programmate per guardare sempre la vita che scorre al di fuori di noi e mai quella in tumulto dall’interno, per metterci seduti davanti a noi stessi, per guardarci bene negli occhi e scendere a patti con ciò che siamo. Per provare, finalmente, a comprenderci fino in fondo. Prima di salire su una navicella che ci porti troppo lontano nel tempo e nello spazio, senza possibilità di ritorno.