ATTENZIONE: questo articolo contiene spoiler su Sons of Anarchy.
Caro diario, sono io, Tara Knowles.
Come al solito scrivo su ritagli di pagine, nei ritagli di tempo dalla mia vita e dalle sue corse. I giorni si susseguono ondeggianti come lo srotolarsi veloce delle strade sotto le ruote delle nostre motociclette. Solo chi come me cavalca fino in fondo questo stesso asfalto comprende appieno il significato delle parole che sto scrivendo, e che probabilmente nessuno leggerà mai.
La verità è che quando entri nel circolo vizioso dei Sons of Anarchy, un giorno ti svegli e attraversi il vento con la ferocia che ti caratterizza, e il giorno dopo ti rannicchi nell’ombra del timore, chiedendoti di cosa tu abbia davvero paura.
Ecco, in questo preciso istante mi ritrovo nella foschia silenziosa della mia camera da letto. Sono a casa, circondata dalle mura di una dimora quotidiana e familiare. Sono a casa ma mi sento impaurita ed esposta.
Lascio scorrere l’inchiostro, sperando che con esso si dissolvano i miei timori. Eppure, stringere tra le dita tremolanti questo pezzo di carta ruvido come la mia anima non cambia il fatto che io sia qui: nell’angolo più freddo di questo appartamento, a evitare l’immagine di me stessa riflessa nello specchio appeso alla parete. Non ho l’ardire di guardare in faccia ciò che sono.
So che ciò che mi ritroverei a guardare sarebbe la sagoma sinistra di una me che non riconosco, intenta a fissarmi con un ghigno che non cessa di turbarmi. Eppure dovrei essere io, Tara Knowles.
Le mie giornate si attorcigliano nel loro ritmo convulso e ho la brama e la paura di momenti morti come questo. La corsa continua, il sangue, il caotico sbuffare dei motori, i silenzi, le urla, il pianto, la violenza, l’amore. Tutto questo mi affolla il cervello e mi appesantisce il cuore.
Caro diario, quando sono tornata a Charming ero consapevole dei rischi che stavo correndo.
Quando sono piombata nuovamente nel regno dei Sons of Anarchy, non ho semplicemente accettato il mio Destino. L’ho rincorso. Mi ci sono schiantata.
E ora mi ritrovo a camminare in punta di piedi tra i cocci della mia personalità. Tutto ciò che sono si riduce a difendere la mia segreta eredità d’amore. A questo punto della mia esistenza, in cui non sono più capace di provare altro che rabbia e angoscia, l’unico pensiero fisso che attanaglia il mio cervello è strappare i miei bambini dalla vita a cui sono destinati.
La violenza ha piantato in loro un seme a cui devo assolutamente impedire di germogliare e fiorire. Voglio che loro conoscano l’amore, quello vero, quello semplice.
Perché l’amore ha tanti volti e io li ho conosciuti tutti. Ma, dal mio punto di vista, l’amore assume sempre un solo e unico nome. Non avrei potuto amare meglio di come ho fatto, e non avrei potuto pretendere in cambio più di ciò che ho ricevuto. Io e Jax abbiamo pagato il prezzo del Destino. Insieme abbiamo osato sfidarlo e insieme abbiamo lasciato che le pagine della nostra vita si accartocciassero, ancora bianche, vergini di un romanzo che non abbiamo mai scritto, ma che non abbiamo mai smesso di sognare.
Intonse sono le nostre illusioni, intonsi sono i nostri viaggi mentali. Ma l’amore, quello vero, lo abbiamo lasciato marcire. Abbiamo goduto di un sentimento consunto che era macchiato a prescindere.
Un SAMCRO non ha il diritto di amare. In bilico tra le macerie e tra le armi, baratta il cuore per la corazza.
Con lo sgocciolare in coagulo di queste parole vorrei urlare tutto ciò che ho dentro. Con l’arrugginirsi delle mie lacrime quotidiane vorrei cambiare qualcosa che, tornando indietro, rifarei esattamente allo stesso modo.
Se esiste un dio, in questa vita mi ha fatto pagare un prezzo troppo alto. A volte mi chiedo se lo meritavo davvero. Quando allo specchio quella figura arcigna mi rivolge sghemba il suo ghigno familiare e oscuro, mi chiedo se la sofferenza sia solo una maschera della coscienza, o se quella ragazza dall’altro lato della superficie riflettente sia la vera me.
Questo tempo rubato per il vagheggiare sanguinante delle mie parole volge al termine, come questa pagina dai bordi asimmetrici e spigolosi. Questa parentesi di scrittura sopisce e sutura quotidianamente le pene delle mie giornate e, come sempre, si conclude senza una risposta e senza una soluzione: con il pianto di un bambino o lo sbattere furente del portone a tarda notte.
Così, questo diario si chiude e la mia vita riprende a sbriciolarsi in sordina, strisciando colpevole tra gli ostacoli di una nuova e ancora sconosciuta violenza.