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La sesta stagione di Sons of Anarchy è il ritmo simmetrico tra lieto fine e tragedia

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“But it’s too late, to go back.
I can see the darkness, through the cracks.
Daylight fading, I curse the breaking.
The day is gone.
The day is gone.”

All’alba esistono soltanto dubbi stridenti, e l’inizio del giorno è intriso della paura dell’incertezza.
La stessa incertezza che Jax riconosce, invece, come unico passaggio in grado di portarlo a destinazione senza passare per la tangente, e di recidere il nastro di un traguardo che suo padre ha avuto il merito di individuare.
Poi alla sera, in quella che è la fine del giorno, la luce dei dubbi passa il testimone all’oscurità di risposte che tengono svegli. La consapevolezza non è più un premio, e la responsabilità di essere consci rende l’inizio di un nuovo giorno sempre più atterrito ed insostenibile, formando la chiusura perfetta di un cerchio che vorticosamente affina la sua circolarità ripetendosi.
La sesta stagione di Sons of Anarchy inizia col mattino, e termina con la notte: cominciamento e conclusione di un sistema simmetricamente perfetto (e il “simmetricamente” non può mai essere pura contingenza nel mondo di Kurt Sutter).

È nella confortante quotidianità di un risveglio, nell’intermittenza di sequenze che mostrano l’”inizio del giorno” dei cittadini di Charming (tra cui quella determinante del piccolo Matthew, immagine speculare del peccato di Jax, diretto a scuola col KG9 venduto dai Sons ai Byz Lats), che la sesta stagione di Sons of Anarchy ragguaglia i protagonisti per aprire le danze.
È nella fine del giorno, e nell’indolente abbandono al sonno definitivo, che la musica sbiadisce in dissolvenza e il frenetico ballo, finalmente, si consuma.
Finalmente”, non a caso, perché l’impellente sensazione di vedersi dipanare la vicenda diventa il fardello dello spettatore, che si ritrova avvolto nel refrain insostenibile della sofferenza nella tragedia greca, dove l’equivoco è sempre protagonista e l’essere supervisore onnisciente ha, a due tempi, l’obiettivo di elevarci da ed immergerci nella vicenda, come a volerne enucleare l’intrigo disperatamente.

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Il leitmotiv della sesta stagione si contrappone a quello della stagione precedente, dove il percorso istruttivo alla sovranità di Jax si presenta essenzialmente come un mutamento regolato dalla “serendipità”: Jax “scopre” ed “apprende” grazie ad una ricerca del tutto estranea a ciò che gli capita, trovandosi di fronte a situazioni utili ai suoi fini nel momento in cui era in cerca di qualcos’altro.
La casualità cede lo scettro alla doviziosa crudeltà della simmetria, che si occupa di lesinare le emozioni ed offrire un quadro denotativo rafforzato da simboli e ricorrenze.
Se la quinta stagione di Sons of Anarchy era incentrata sul caos, la sesta è indubbiamente focalizzata sull’ordine.
L’ordine nella sesta stagione è inesorabile, quello sancito dal più anziano dei nostri respiri, l’ultimo ad arrivare.
Cosa c’è di più ordinato di ciò che è oggetto di una programmazione irreversibile?

Cosa c’è di più ordinato della morte?

In questo schema armonico, l’ordine è tenuto in piedi ancora una volta dalla diegesi: non solo la musica, ma anche i personaggi si ergono a “narratori esterni” delle vicende, come Lee Toric nella scena dell’incontro con Gemma chiesto da Clay, che avviene nella sala degli interrogatori.
La sequenza è emblematica di questo canovaccio: un vetro unidirezionale che fa da sipario; due attori di scena, uno di rimpetto all’altro, in un confronto che satura definitivamente la parabola discendente dell’ex presidente dei Sons, con la definitiva apertura emotiva di chi non ha più ragioni di occludere la propria coscienza; Lee supervisore dietro le quinte (dietro, appunto, lo specchio unidirezionale) che suggella la chiusura dell’atto con l’ennesimo rimando shakespeariano, spiegando a sé stesso l’intento che precede le azioni rassegnate di Clay.
Da narratore diegetico, appunto, parafrasa così l’incontro tra Gemma e Clay: “Amore non muta in poche ore o settimane, ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio”.

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L’ordine è ambizioso e a tratti cadenzato, e come nell’episodio 5×03 assistiamo al combattimento in prigione di Opie, nell’episodio 6×03 assistiamo a quello di Clay lasciato solo con gli uomini di Marx, sempre in prigione, prima di venir graziato dal patto stipulato con gli stessi.
L’iconografia si ripete come il rotocalco della storia di John Teller, che viene riscritta attraverso suo figlio: il disaccordo con gli irlandesi porta alla ripetizione di una situazione già vista nella visita dei Samcro a Belfast, durante l’assalto al magazzino; sono gli stessi irlandesi a riciclare la storia, ripetendo la tragedia, seppur in maniera differente, al capanno di Oswald con la mutilazione e l’omicidio dei “prospectFilthy Phil e V-Lin.

L’affermazione di Nero come “figura sostitutiva” di padre per Jax esplode nell’attimo in cui la sofferenza di quest’ultimo diventa attenuante di crimini che egli stesso non si perdona, quando la rabbia di Nero per la scoperta dell’omicidio di Darvany commissionato da Jax annega in un attimo, mutando in una docile carezza paterna.
Come causa di un effetto domino, i personaggi “avanzano” nel loro sviluppo scambiandosi di posizione, come a non lasciare mai scoperto un ruolo: da Nero che assume un’autorevole immagine paterna (rimpiazzo di Clay, il quale a sua volta rimpiazzava l’eterno assente John), a Clay che, nel vivere il suo calvario personale nell’itinerario montato dalla legge del contrappasso, si trova a passare dalle condizioni di Piney a quelle di Big 8, prendendo letteralmente il suo posto (come Big 8, Clay sarà una pedina intoccabile e decisiva dall’interno della prigione).
Ma in questo gioco di ruoli, i personaggi non mancano di assolvere il proprio compito nel ricoprire quella posizione simmetrica nell’organigramma di Sutter: il patto di Jax con il procuratore Patterson ricorda in maniera lampante il confronto sfacciato tra Jax e la Stahl durante l’accordo fasullo del terzo season finale, e la nuova carica di leader di Marx, successore di Pope, viene non casualmente definita con “Re Nero”, in contrapposizione all’autorità che ha mosso le vicende della seconda stagione di Sons of Anarchy, ossia il “Re Bianco” degli ariani Zobelle.

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Il piano di Jax diventa “piano sociale” attraverso la “cultura della criminalità”, e nel volersi liberare del traffico delle armi, e al contempo mantenere pratico ogni ingranaggio della complessa rete di Charming, inneggia in maniera disillusa e solo vagamente accennata al superamento del radicalismo razziale (in particolare, tra neri ed irlandesi), pur non essendo un suo diretto interesse.
Ciò è dimostrativo della centralità di Jax Teller all’interno della serie, in riferimento al precedente discorso di serendipità: un sovrano che impara ad essere sovrano, e nel farlo apprende casualmente principi che riconoscerà come immodificabili per qualsiasi tipo di associazione e rapporto tra individui, la stessa associazione resa libera dai fondamenti in cui John Teller credeva drasticamente.

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Ma se esiste una legge immutabile nell’universo di Sons of Anarchy, è quella che vede la famiglia come epicentro del flusso condizionante, che inquina anche l’ambiente esterno come lo scarico di una moto troppo vecchia per tornare a calcare la strada, e che pertanto scompare nella deflagrazione di quella che è un’arteria di Charming: l’esplosione dell’officina è il momento in cui John Teller muore per la seconda volta (la sua moto fa da icona di questa metafora), perdendo ancora una volta una partita già iniziata in vita, con gli irlandesi.
La visione di Jax pensata da Kurt Sutter è basata su quello che viene chiamatoapproccio ecologico”: il minuscolo ecosistema familiare è, per Jax Teller, la causa influenzante della costruzione della sua identità, tanto da provare una sorta di assuefazione all’ambiente familiare che supera perfino l’atavico sentimento di bene (la continua ricerca della madre ad ogni costo).
D’altra parte, l’attenzione morbosa di Gemma è causa dell’iperprotezione che porta al tipico disadattamento, e da qui la figura di Jax torna a configurarsi come quella di un fanciullo: il maggior controllo materno che “indebolisce” l’influsso di esperienza ed indipendenza.
Questa assuefazione da parte di Jax, in questa sesta stagione più evidente che in ogni altra, torna a confondersi quasi allegoricamente con l’accennato riferimento al mito edipico: Jax giustizia Clay, ed ancora sorpresa e frastornata dalla morte di quest’ultimo Gemma uccide Tara, come a sublimare il desiderio di possesso di suo figlio/vendetta per l’”amante” perso; l’omicidio di Tara non a caso è animalesco, istintivo, “sporco”, esternazione massima del male che è pneuma vitale dell’uomo, come da copione della tragedia greca.

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Di quello stesso male, di quell’oscurità che cerca di zampillare dalle ferite dell’uomo tormentato, la musica ancora una volta parla.
Ne parla raccontando il finale, spiegandosi da sola nel sottofondo del tumulto di un uomo in agonia (un Hunnam superlativo, in grado di consacrare la perfetta simbiosi della sua persona col ruolo che ricopre nella serie), che è stato privato di qualcosa nell’attimo successivo a quello in cui credeva di aver perso già tutto, dimettendosi da Re:

“It’s too late, to go back. I can see the darkness, through the cracks”.

E ancora quel male, oscurità che trapela dalle crepe dell’anima, ha un vero dramma nel quale risiedere ora, e così “può essere visto”, ed addirittura “lasciato agire”.
Non riposando più quiescente sotto la struttura illusa di Sons of Anarchy, il male ha ora il permesso di uscire:

“I let the darkness, seep through the crack”.

La sesta stagione di Sons of Anarchy è simmetrica quanto il rapporto tra Jax e Tara: così come due cariche sovrane si respingono implicando l’una l’esclusione dell’altra; come il moto uniforme di due ruote di una stessa moto, che graffiano la stessa strada senza incontrarsi mai.
Come giorno e notte, due sistemi eternamente assenti l’uno dall’altra, desiderosi di sovrapporsi ma tangenti soltanto negli sfuggevoli e fugaci cambi di guardia.
In quel breve istante, a Jax è concesso di soffrire; ma il dolore dura un minuto, e la vendetta è tutto ciò che rimane.

Tutto ciò che rimane.
Quando è troppo tardi, e il “giorno è andato”.

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