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Ancora un altro gioco – La Recensione della seconda stagione di Squid Game

ATTENZIONE! L’articolo contiene SPOILER della seconda stagione di Squid Game.

“La vita umana, nel suo insieme, non è che un gioco, il gioco della pazzia.”

Erasmo da Rotterdam

Quale è il primo ricordo che vi viene in mente se pensate al gioco nella vostra vita? Forse un fortino costruito con i cuscini del salotto e altri assi improvvisati. Una campana disegnata per terra con gessetti colorati. La casa delle Barbie che avete sempre chiesto. Le macchinine Hot Wheels. O, più semplicemente, un gioco di fantasia le cui regole erano precluse a tutti tranne che a voi e pochi eletti. Quel gioco costruito nella mente che prendeva forma e dimensione nel mondo reale, solo ed esclusivamente per mezzo della fantasia. Impossibile da cogliere per gli adulti.

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Ecco quindi il senso della parola “gioco”, inteso come divertimento, scherzo, ma anche competizione e sfida. Ben prima che emergessero le prime civiltà strutturate, le comunità primitive creavano giochi per sviluppare competenze essenziali come la coordinazione e la strategia. Il gioco assumeva, dunque, anche un valore rituale e sociale per stringere legami tra i membri della tribù o per rafforzarli.

Dal Senet, uno dei giochi da tavolo più antichi, praticato in Egitto al “Gioco Reale di Ur”, prototipo del backgammon in Mesopotamia. Dai giochi olimpici greci, simbolo stesso della competizione atletica, ai “ludi” di epoca romana. Nel Medioevo, i giochi vengono occasionalmente proibiti dalle rigide regole ecclesiastiche, per ritrovare nuova vita con il Rinascimento e con i giochi di carte, sempre più elaborati e complessi. A prescindere dal periodo storico o dal paese di provenienza, il gioco ha continuato a resistere e persistere, evolvendosi in base ai tempi e alle necessità. Il gioco racchiude in sé due dei bisogni fondamentali dell’uomo, lo stesso che ritroviamo, in fondo, in quasi ogni forma di cultura e intrattenimento: educare e divertire.

Allora la genialità di una serie tv come “Squid Game” sta proprio nel capovolgere nettamente questi bisogni, ribaltando il concetto stesso di “iocus”.

A 456 persone viene offerto di partecipare a sei giochi, alla fine dei quali il premio in palio è 45,6 miliardi di won. Una somma ingente, che permetta loro di pagare innumerevoli debiti e ricominciare da capo. D’altronde è proprio a causa di quei debiti che decidono di accettare, non sapendo né chi ha organizzato il gioco né in cosa consista esattamente. Questo è, in brevissimo, l’inizio di “Squid Game“, la serie tv sudcoreana arrivata sulla piattaforma Netflix in sordina e che ha stravolto il mondo seriale. Un po’ come “Stranger Things”. Nessuno l’aveva previsto, nessuno se lo sarebbe aspettato, eppure “Squid Game” ha scalato le classifiche, conquistato pubblico e critica, tanto da spingere il suo creatore a lavorare a un seguito (la terza stagione, già annunciata sarà l’ultima).

Dopo oltre tre anni di attesa, “Squid Game” è tornata con una seconda stagione (disponibile sul catalogo Netflix qui), forse meno cattiva della precedente ma sicuramente più filosofica. Riprendendo le fila di quanto già visto, lo show sudcoreano ci riporta nell’arena con nuovi personaggi e nuovi giochi, ma non mancano le risposte a diverse domande della prima stagione.

Il terribile gioco all'inizio della seconda stagione di Squid Game

La corruzione dell’innocenza

Gi-hun Seong è un uomo buono. Dipendente dal gioco, imbranato, infantile certo, ma fondamentalmente buono. Un personaggio che, nella più antica e celebre tradizione del “viaggio dell’eroe”, si ritrova a precipitare in un abisso oscuro e a trovare i mezzi per uscirne. L’abisso, però, non è solo quello fisico dei giochi ai quali è costretto a partecipare, ma è anche l’oscurità del suo animo e di quello degli altri peccatori che sono rinchiusi con lui. Uno dopo l’altro, i giochi portano alla luce bugie e segreti, spingendo gli uomini gli uni contro gli altri e azzerando ogni limite morale. Homo homini lupus. L’uomo è un lupo per l’uomo. Così scriveva il filosofo Thomas Hobbes per descrivere quello stato assoluto di egoismo, in cui gli uomini cedono alla propria parte bestiale e si combattono a vicenda.

Ed è esattamente questo che accade in “Squid Game” e che la serie tv, in maniera metanarrativa, vuole denunciare. Salvo poi lasciare una porticina aperta alla speranza con la figura di Gi-hun. Perché Gi-hun, pur assistendo alla morte, all’omicidio, alla menzogna e alla corruzione, non perde mai la propria umanità. Anche durante l’ultimo gioco, quello del calamaro, il protagonista è disposto a rinunciare al premio, pur di non venir meno al proprio codice morale. Nell’ultimo, meraviglioso confronto con Oh-Ilnam, il burattinaio dietro le quinte, Gi-hun impartisce al vecchio una lezione fondamentale: non tutto è perduto. Per quante persone possano continuare a partecipare ai giochi e per quante possano strisciare nel fango, ci saranno sempre coloro che si rifiuteranno e che si ergeranno liberi al di sopra dei soprusi.

Per questo motivo, tre anni dopo aver partecipato ai giochi, Gi-hun rientra. Stavolta per fermarli del tutto.

“Non sono un cavallo” risponde il protagonista a chi ritiene di poter scommettere sulla sua vita e su quella di altri poveracci come lui. D’altro lato della barricata, stavolta, non c’è un vecchio in punto di morte che vuole solo divertirsi un’ultima volta, ma un altro ex vincitore come lui. In-ho è l’Altro. Il Front Man simboleggia quello che sarebbe potuto essere se Gi-hun avesse intrapreso un’altra strada. O, parafrasando Due Facce in “The Dark Knight”, l’eroe che ha vissuto così a lungo da diventare il cattivo della sua stessa storia.

Il "Pentathlon a sei gambe" nella seconda stagione di Squid Game

001 e 456

Affascinato e confuso dallo stoicismo morale di Gi-hun, In-ho decide di prendere lui stesso parte ai giochi simbolicamente nel ruolo di 001. Tuttavia, contrariamente all’intento dell’originale, In-ho non entra nell’arena per portare caos ma ordine. Un ordine che rispetti le regole e le gerarchie, che non favorisca né l’una nell’altra parte e che invece immerga tutti equamente in quel mare di fango e sangue. Lo stesso ordine che, d’altro canto, lo aveva spinto a punire il dottore e i triangoli coinvolti nello spaccio illegale di organi. Lo stesso ordine che lo porta a intervenire in una rissa.

Come Jigsaw, anche In-ho crede nella punizione degli immeritevoli. Una seconda occasione non trova spazio per chi non la merita, per chi ha dimostrato, almeno ai suoi occhi, di disdegnare la vita. I giochi sono allora un mezzo necessario per riportare la bilancia in equilibrio, per ristabilire una struttura che sia equa e paritaria. Non c’è spazio per i deboli. La vita è un gioco alla sopravvivenza. Di fronte a questo pensiero così inamovibile e cinico, ecco che gli si para di fronte una sorpresa inattesa. Un uomo che sembra ribaltare ogni sua convinzione, così strenuamente convinto che tutti meritino una seconda possibilità.

“Squid Game 2”, dunque, è essenzialmente un conflitto psicologico tra due uomini che sono sprofondati all’inferno, ma dal quale ne sono usciti in maniera diversa.

Entrambi irrimediabilmente cambiati e irrimediabilmente soli. Due sopravvissuti che hanno affrontato i giochi con un peso sul cuore e dai quali hanno tratto insegnamenti opposti. Gi-hun rimane saldo nelle sue convinzioni, disposto a sacrificarsi per il prossimo e a dimostrare che l’essere umano non è una causa persa. In-ho ha fatto della sua missione, invece, quella di scalfire l’etica di Gi-hun e dimostrargli che si sbaglia. O forse ciò che intende davvero faro è dimostrarlo a se stesso, evitando così di doversi guardare dentro e realizzare che tipo di mostro sia diventato.

Nuovi giochi, stesso finale

L’umanità può salvarsi da sola? Altro quesito che la seconda stagione di “Squid Game” (in arrivo lo spin-off americano firmato da David Fincher) torna a esplorare, attraverso nuovi giochi e nuovi personaggi. I giocatori, stavolta, sono più sfaccettati, navigano tra sfumature di grigio che li rendono meno netti rispetto alla prima stagione e che, per tale motivo, anche la narrazione risulta più articolata. In diverse occasioni, la serie tv rischia di ripetersi e forse calca troppo la mano sul dialogo a cuore aperto, mettendo un po’ in secondo piano la parte relativa ai giochi in sé e per sé.

Giochi che risultano meno crudeli, ma sempre rivelatori della psiche umana. Se “Un, due, tre stella” torna a infestare i nostri incubi, altri giochi si aggiungono presto. Nel “Pentathlon a sei gambe”, la collaborazione e lo spirito di squadra permette al gruppo di sopravvivere facendo affidamento sul talento dei singoli. Nel “Raduno”, le alleanze e le alchimie si stringono e sciolgono in un battito di ciglia.

Stesso discorso vale anche per la schiera di personaggi che, ignari, decidono di partecipare ai giochi della seconda stagione di “Squid Game”. Abbiamo la madre, il magnifico, il folle, l’oracolo e la faina. Riuscite a capire chi è chi? “Squid Game 2”, ancor più della prima stagione, si prende tutto il tempo per parlarci di loro, per farci capire le loro motivazioni e la loro backstory. Tra tutti si erge, ovviamente, Gi-hun, il prescelto, colui che è tornato all’Inferno per salvare i peccatori. Anzi no, è sceso fin dentro le sue viscere per raderlo al suolo.

“Squid Game” torna nella spietata arena dei giochi, ma la storia è più profonda, più impegnata e con un intento nettamente diverso rispetto alla prima stagione. Esiste un tema chiaro che supera il bisogno sensazionalistico della prima stagione e si concentra maggiormente sulla psiche dei suoi personaggi, in particolare di Gi-hun e della sua antitesi. Non mancano il sangue e la violenza, né tantomeno la critica sociale, eppure a farla da padrone qui è in tutto e per tutto l’etica dell’io. La forza del messaggio, seppur di natura parzialmente diversa, è ugualmente prepotente: rimaniamo ora in attesa dell’ultimo capitolo di una serie che, volenti o nolenti, rimarrà comunque nella storia come una di quelle serie che hanno sconvolto il mondo.

Serena Faro