Quando nel 2008 uscì Hunger Games, il romanzo distopico per eccellenza scritto da Suzanne Collins, quasi nessuno immaginava lo straordinario successo che avrebbe avuto. La saga feroce e rivoluzionaria che ha catturato il cuore di milioni di fan si basava su una premessa terribile e affascinante: un gruppo di ragazzi costretto a competere all’interno di un arena fino alla morte per il divertimento dei ricchi. Lo stesso anno Hwang Dong-hyuk, uno sceneggiatore sudcoreano al tempo quasi sconosciuto, scrive una sceneggiatura che ricalca le stesse disturbanti dinamiche del romanzo della Collins. Non riuscendo a trovare uno studio di produzione che lo finanzi, il progetto viene abbandonato fino al 2021, quando esce su Netflix Squid Game. Prima di Hunger Games, prima dell’era dei distopici, c’era il gioco del calamaro. Facciamo quindi un’analisi a mente fredda di Squid Game, la serie più vista in America nella storia di Netflix, un anno e mezzo dopo la sua uscita.
I fan più accaniti del genere sanno che Suzanne Collins per prima, come tanti autori di fantasy e distopici, prese spunto per i suoi romanzi da vicende o periodi storici veritieri. Così, come la guerra in Vietnam e le figure dei gladiatori in epoca romana ispirarono l’Arena e i massacri che hanno reso Hunger Games il fenomeno che è, dobbiamo individuare che cosa, precisamente, ha ispirato una serie che racconta molto più di ciò che sembra. Addirittura non si limita a raccontare: accusa, denuncia, condanna. Senza remore e soprattutto senza pietà.
Partiamo dall’inizio. Squid Game (il cui titolo fa riferimento ad un popolare gioco per bambini molto praticato in Corea, il “gioco del calamaro”) è una serie tv sudcoreana scritta e diretta da Hwang Dong-Hyuk, disponibile in streaming su Netflix dal settembre 2021. La serie è ambientata in una Seoul che potrebbe essere qualsiasi città della Corea del Sud (perché, come vedremo poi, in Squid Game non è tanto importante il cosa ma il come) e vede come protagonista Seong Gi-Hun, uomo divorziato e con gravi problemi finanziari e familiari. Costretto a vivere grazie all’aiuto economico della madre, fatica a vedere la figlia di cui vorrebbe ottenere l’affidamento e vive ai margini della società, andando avanti giorno dopo giorno con il poco che gli resta. Avvicinato da uno sconosciuto, viene invitato a partecipare ad un gioco, insieme ad altri 455 concorrenti tutti accomunati dalle stesse difficoltà, il cui montepremi finale permetterebbe a Seong di risolvere ogni suo problema. Ma come in ogni prodotto di genere distopico che si rispetti niente è come sembra, e le insidie sono in grado di celarsi dove meno te lo aspetti.
I protagonisti, infatti, ci mettono ben poco a capire che quelli che sembravano innocui giochi sono in realtà un cinico e implacabile processo di selezione. Chi perde, in Squid Game, o muore per cause fuori dal suo controllo o viene brutalmente ucciso, e ad ogni concorrente deceduto si alza un po’ di più il montepremi destinato al vincitore, l’ultimo a sopravvivere.
Il creatore e sceneggiatore della serie ha affermato più volte di essersi basato sull’evidente disparità economico-sociale che vige in Corea del Sud, e non è difficile capire perché. I protagonisti di questa storia che risulta tragica da qualunque lato la si osservi sono gli ultimi, i reietti, paragonati quasi ad un branco di topi che strisciano per terra e si mordono tra di loro lottando per gli avanzi. Squid Game, in questo senso, non è solo un prodotto thriller ben scritto, un capolavoro di simbolismo in grado di reggere magistralmente la tensione e che trascina lo spettatore in una narrazione ansiogena e ben costruita.
Squid Game è una brutale ma necessaria critica sociale, che dipinge l’uomo com’è realmente quando lo si spoglia di ogni costume superfluo: un animale.
Come gli adolescenti abbandonati sull’isola ne Il signore delle Mosche, pian piano tutti in Squid Game fanno cadere la maschera, e coloro che sembravano comuni uomini e donne civilizzati e competenti si trasformano in mostri. Non vince chi aiuta, chi tende una mano: trionfa chi manipola, inganna, rovina, uccide. E in questo senso la scrittura dei personaggi nella serie è davvero vincente, perché non c’è una macchietta o uno stereotipo. Tutti, dal calcolatore Cho Sang-woo al timido e dolce Alì, sono tristemente sfaccettati. Anche quando non vorremmo he lo fossero.
La serie non è l’unica di genere survival game disponibile su Netflix, ma c’è un motivo se per molti è considerata la più riuscita, o comunque quella che si distacca maggiormente dalla norma. La verità è una, e non ci stancheremo mai di ripeterla: per certi versi, niente arriva al cuore delle cose come le produzione sudcoreane. E questa non fa eccezione, soprattutto se si considera l’enorme impatto che ha avuto con una sola stagione composta da nove episodi. Ci sono cose già viste? Assolutamente sì. La vera domanda è: come sono raccontate? In Squid Game nessuno è strappato dalla propria famiglia e sbattuto all’interno di un massacro annunciato, costretto a combattere per il divertimento delle genti: addirittura, viene data la possibilità ai partecipanti di andarsene, lasciare il gioco e tornare alle proprie vite di sempre. Vivi e indenni, ma uguali a prima. Poveri e soprattutto disperati. E’ la possibilità di scelta ad aggiungere a Squid Game un lato ancora più perverso e magistralmente descritto: cosa si è disposti a fare quando non si ha più nulla? Di cosa è davvero capace l’uomo?
Ed è qua che arriva la vera critica, il vero attacco di una serie che senza troppe pretese riesce ad entrare nel cuore di chi guarda e di sconvolgerlo completamente. Perché siamo tutti bravi a condannare, a rintanarci nella sicurezza delle nostre case e giudicare chi si macchia di azioni che per noi sono inconcepibili. Squid Game serve invece a ricordarci che coloro che vediamo sullo schermo potremmo tranquillamente essere noi, quando la vita ci delude e ci ritroviamo sul fondo del barile, che più in basso di così si muore.
Quindi sì, ad un anno e mezzo dalla sua uscita ci sentiamo di dire che Squid Game il suo lavoro l’ha fatto. E anche molto bene. La recitazione è di alto livello, i colpi di scena sono ben costruiti, il finale non delude. Potremmo far notare qualche buco di trama che ha fatto storcere il naso, o l’arco narrativo di qualche personaggio che lascia un po’ a desiderare, ma nel complesso abbiamo davvero poco per cui lamentarci. Squid Game ci ha invitato a giocare con lei e non ci ha deluso affatto. Anzi, ci ha ricordato che spesso non ci sono vincitori: ognuno fa semplicemente quello che può.