ATTENZIONE! L’articolo contiene SPOILERS delle due stagioni di Squid Game.
Un dormitorio gremito di debitori. Un esercito di sconosciuti in tuta rosa e con maschere nere. Una bambola terrificante che uccide con lo sguardo. Immagini ricche di una colorata e insieme agghiacciante potenza espressiva, legate indissolubilmente a una serie tv: Squid Game. Ed è proprio in questi casi che una serie ce l’ha fatta, che è riuscita a distinguersi dalla marea di prodotti propinati incessantemente da questo o quell’altro servizio streaming. Ce l’ha fatta, dunque, quando costruisce un immaginario specifico che diventa suo e suo soltanto. L’isola di Lost. Le sigarette di Mad Men. I draghi di Game of Thrones. Singoli elementi che ne richiamano altri e che, a loro volta, riportano chiaramente alla nostra mente personaggi e storie.
Quindi si, Squid Game ce l’ha fatta a ritagliarsi il suo spazio in questo universo seriale sempre più complicato e impietoso e, nonostante una seconda stagione più discussa, ha continuato a resistere.
Cosa saresti disposto a compiere pur di avere una seconda possibilità? Pur di rimettere insieme la tua vita e ricominciare da capo? Saresti persino disposto a compiere atti immondi, soprattutto quando in palio ci sono più soldi di quanto tu possa mai sognare in una vita intera?. 456 persone si ritrovano a partecipare a una serie di sei giochi con in palio un premio finale di 45,6 miliardi di won, una cifra sufficiente a estinguere i loro debiti e a ricominciare da zero. Senza conoscere né l’identità degli organizzatori né la natura dei giochi, questi 456 sconosciuti accettano. Per loro è solo l’inizio di un incubo. Dovendo lottare per la loro stessa vita, i giocatori si rendono ben presto conto che i giochi sono molto più crudeli di quanto avrebbero potuto immaginare e che il prezzo da pagare è il più caro di tutti.
Approdata più di tre anni fa su Netflix (disponibile sul catalogo qui), la serie tv sudcoreana ha rivoluzionato il panorama televisivo. Proprio come accadde con Stranger Things, il successo è stato inaspettato. In breve tempo, Squid Game ha scalato le classifiche affermandosi come un fenomeno pop culture e facendo incetta di premi.
Ma perché Squid Game è riuscita dove molte altre hanno fallito?
Non esiste ovviamente un’unica risposta a questa domanda e, senza dubbio, la chiave del successo della serie tv sudcoreana risiede in diversi fattori. Il primo è il famoso “passaparola”. In un’epoca ormai sempre più pervasa da social e dagli influencer, il commento giusto al momento giusto può fare la differenza. L’attenzione del singolo si trasforma in un’onda che percorre l’immensità del web e lo travolge. Nel bene e nel male. Nel caso di Squid Game, il passaparola è stato senza dubbio un bene, in grado di sancirne il successo e farla conoscere, in pochissimo tempo, al pubblico globale. Il secondo fattore è la cara, vecchia fortuna. La dea bendata agisce anche nel mondo cinematografico e seriale. Ultimo, ma non per importanza, il tema. Come già ho scritto nella recensione della seconda stagione, Squid Game ribalta completamente il concetto di “gioco” e ci costruisce attorno una trama.
La metafora del gioco in Squid Game
Il gioco è una delle metafore più potenti e versatili nella narrazione audiovisiva. Da sempre, questo espediente permette di esplorare temi complessi come il potere, la moralità e la condizione umana. Film come The Hunger Games, che non ha avuto eredi, utilizzano un’arena ludica come metafora per la lotta di classe e la manipolazione dei media. In Jumanji, il gioco da tavolo obbliga i protagonisti a confrontarsi con sé stessi e le proprie paure, mentre nella saga di Saw i partecipanti devono prendere decisioni estreme, esplorando così i limiti del sacrificio e il valore della vita.
Un po’ come accade in Squid Game. Nel caso della serie tv coreana, però, il sentimento grottesco è amplificato dal fatto che i giochi ai quali prendono parte i protagonisti rappresentano rimandi all’infanzia. Se in Saw il sadismo del killer si riflette nei complicati enigmi che prevedono squartamenti e via dicendo, in Squid Game la violenza è nascosta in bella vista.
La scelta di giochi infantili è tutt’altro che casuale: rappresenta il contrasto tra l’innocenza perduta e la brutalità del mondo adulto. Ognuno dei giochi riflette situazioni reali, appartenenti al mondo corrotto dell’età adulta. Da un lato “Un, due, tre, stella” sembra quasi echeggiare quel bisogno di conformarsi alle regole sociali, mentre “I ponte di vetro” potrebbe rappresentare la casualità del successo, a discapito delle reali abilità individuali. Nel contesto di Squid Game, il ricordo dell’innocenza e i giochi che l’accompagnano assumono una dimensione violenta e distorta. La società, anziché proteggere e coltivare l’innocenza, perpetua una cultura di sfruttamento e competizione.
Eppure il gioco, per quanto violento, assume anche funzione catartica.
Molti partecipanti portano con sé ferite emotive che derivano dalle esperienze vissute durante l’infanzia o la giovinezza. Gli stessi traumi influenzano le loro scelte, trasformando il gioco in una sorta di terapia inversa, dove anziché guarire le ferite queste vengono esacerbate. L’ultimo gioco, il gioco del calamaro, è il culmine di questa riflessione. Si tratta di un’attività simbolo dell’infanzia coreana, ma qui rappresenta uno scontro mortale tra due amici d’infanzia, Seong Gi-hun e Cho Sang-woo. Il primo sta inconsciamente tentando di riscrivere il proprio passato, il secondo è spinto verso decisioni immorali dalle aspettative della società. La trasformazione di un gioco innocente in un duello brutale riflette la degradazione delle relazioni umane in una società che premia proprio la violenza e l’egoismo.
Il confronto finale, dunque, non è solo fisico, ma soprattutto psicologico ed etico. I due personaggi si trovano a fare i conti con il peso del loro passato e delle scelte fatte durante il gioco, rendendo evidente che il trauma non è qualcosa che può essere superato facilmente, ma un fardello che continua a influenzare il presente.
L’inaspettata seconda stagione.
Il trionfo della prima stagione è stato tale da spingere il suo creatore a sviluppare nuovi capitoli, con una terza stagione già annunciata come l’ultima e in arrivo questa estate. Nessuno poteva prevedere l’enorme successo, ma nessuno avrebbe d’altronde dubitato che non si sarebbe colta l’occasione per dargli un seguito. Il dio denaro sa essere un tipo molto convincente. Riprendendo più o meno da dove ci eravamo interrotti, la seconda stagione di Squid Game ci spinge a giocare di nuovo, più intensamente rispetto a quanto visto prima. In molti hanno criticato la scelta di percorrere una strada già battuta, ma tutto sommato non è poi così vero. A una prima occhiata, l’iter narrativo sembra molto simile eppure sono visibili delle differenze fondamentali.
Innanzitutto, il gioco esiste oltre i confini dell’arena. The Salesman si prende il suo meritatissimo spazio nei primi episodi, infestando i nostri incubi con la sua crudele roulette russa. Le regole, tuttavia, vanno rispettate e persino un uomo terrificante come lui non viene meno alla parola data. Se nella prima stagione, il confine tra gioco e realtà era quanto mai labile, nella seconda stagione la differenza non esiste più. L’uno si intreccia all’altro, ancora di più quando nell’arena entra In-ho. Non siamo più di fronte a un vecchio pazzo in fin di vita, che vuole dare una scossa al tempo che gli resta, ma di un uomo che è sprofondato all’inferno, ne è uscito e adesso ritorna di sua spontanea volontà. Perché? Per dimostrare a Gi-hun il suo punto di vista.
Da survival horror a dramma morale.
Ecco la seconda differenza tra prima e seconda stagione. La prima stagione di Squid Game ammiccava allo spettatore puntando tutto sul sensazionalismo. I giochi erano un susseguirsi di colpi di scena, tradimenti e violenza fisica con il chiaro intento di scioccare lo spettatore. Il genere survival horror alla sua massima espressione. Nella seconda stagione, però, per quanto il genere sia ancora chiaramente quello, non ha più lo scopo finale di intrattenere, ma quello di far riflettere.
Il protagonista, Seong Gi-hun, incarna il dilemma morale in sé e per sé: è disposto a mantenere la propria umanità in un contesto che lo spinge a comportarsi in modo spietato? La sua evoluzione rappresenta la tensione costante tra altruismo e sopravvivenza, che ogni singolo individuo compie nella propria vita. Di fronte alla violenza dell’arena e all’oscurità, Gi-hun potrebbe percorrere due strade, l’una opposta all’altra. Le chiameremo “occhio per occhio” o “porgi l’altra guancia”. La prima è quella che ha intrapreso In-ho, trasformatosi da vittima in carnefice, ed è la stessa che anche molti altri personaggi decidono di percorrere nel tentativo di sopravvivere. La seconda è letteralmente la scelta dell’eroe, facile a dirsi, decisamente più complicato a farsi.
La seconda stagione di Squid Game, da molti criticata, riserva gran parte della sua narrazione proprio a questa dicotomia, assumendo un tono decisamente più filosofico rispetto al passato.
I giochi passano in secondo piano (ne vediamo appena tre), mentre tutta l’attenzione è rivolta ai rapporti tra i personaggi e al conflitto di idee tra Gi-hun e la sua nemesi. Per questo i dialoghi abbondano, spesso interrompendo il flusso dell’azione. Non è un male, semplicemente un focus diverso sul quale Squid Game ha deciso di concentrarsi. D’altronde non dimentichiamo che la seconda stagione rappresenta più una prima parte di una stagione che avrà il suo proseguo quest’estate. Per poter davvero tirare le somme sulla serie tv sudcoreana dovremo aspettare di vedere come si concluderà.