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Squid Game: il seducente senso della paura

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La nuova serie originale Netflix sta già diventando un cult, ed è destinata a far parlare di sé ancora per molto. La piattaforma ha già annunciato che si potrebbe trattare del più grosso show di sempre, ed è innegabile che le premesse siano ottime. In questo articolo vogliamo concentrarci su alcuni degli aspetti formali e concettuali più interessanti di Squid Game, per capire che cosa sia esattamente a rendere questa serie così coinvolgente.

Se volete evitare spoiler di alcun tipo, non proseguite con la lettura.

I principali elementi disturbanti in Squid Game

Squid Game attira lo spettatore in una trappola che ha come fine ultimo quello di svelare una scomoda quanto risaputa verità, con la quale si deve imparare a convivere. Di per sé è un prodotto disturbante in tutto e per tutto. Partendo dalla colonna sonora in cui a spiccare è una musichetta che ritorna principalmente durante gli spostamenti corali dei pink soldiers, ovvero il corpo armato dei guardiani del gioco, brano che ha un certo non so che del celebre e macabro motivetto di Lavandonia dei Pokémon, quantomeno per il risultato che si ottiene con la sua contestualizzazione. Dal punto di vista visivo l’aspetto più inquietante è la presenza di continui riferimenti al periodo dell’infanzia, sia per quanto concerne le prove sia per le ambientazioni, che sono ovviamente in forte contrasto con il loro significato ultimo. L’uso di colori sgargianti, a partire dalle divise dei già citati e misteriosi soldati, fino a quelli delle labirintiche e claustrofobiche geometrie della base in cui si svolge il gioco. Tutto sembra essere al suo posto in un maniacale ordine che cattura visivamente lo spettatore per poi spiazzarlo facendo corrispondere ad un polo apparentemente felice il suo esatto opposto.

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Dal punto di vista prettamente tecnico, quella di Squid Game, è una produzione di pregiatissima fattura che colpisce in tutti gli aspetti. La ricercata fotografia passa dal descrivere in modo cupo e ingiallito una complessa e squallida realtà come quella del mondo esterno, inteso come tipico sobborgo povero di una metropoli coreana, a dipingere tonalità e colori che apparentemente sembrano uscire direttamente dalla mente innocente di un qualsiasi bambino alle prese con i giochi della sua infanzia. Ed è anche questo forte contrasto a contribuire all’interezza del senso di disturbo che comunica la serie. Le interpretazioni degli attori sono terribilmente realistiche. Sono tutti bravissimi, sia coralmente che individualmente, nel comunicare il forte senso di disagio nel momento in cui ci si rapporta con le loro esistenze al di fuori del gioco, e lo sono anche nel trasmettere tutte le paure che si ritrovano a vivere, soprattutto quella della morte, con la quale imparano a convivere. Netflix ha rilasciato la serie doppiata in diverse lingue, tra le quali però non è presente l’italiano. Ora, de gustibus non est disputandum, però è fortemente consigliata la visione in lingua originale (con i sottotitoli che preferite), proprio perché vale la pena gustarsi l’originale interpretazione degli attori (fidatevi, non ve ne pentirete!).

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Squid Game cela un significato politico? 

Appare chiaro fin dal primo episodio che il senso della serie sia quello di mostrare le analogie tra due poli esattamente opposti della società: i ricchi e i poveri. E in particolare ci si concentra sul tema del denaro e su quanto questo conti nella vita delle persone e soprattutto su quanto possa cambiarle completamente. La vita dei partecipanti al gioco vale giusto qualche milione di won, e la loro disperazione li porta ad accettare questo macabro e consensuale scambio, che è alla base del gioco mortale cui vanno incontro. Ma oltre a mostrarci il lato più meschino e vile del denaro, Squid Game fa molto di più. A questo estremo e sadico gioco di ruolo prende parte anche un’altra faccia della società: i potenti. Ci sarebbero da scrivere intere pagine su quanto visto nella prima stagione, ma proverò a non dilungarmi troppo.

Nella puntata “I VIP” scopriamo che il gioco non ruota tutto attorno al cosiddetto Front Man, non è lui a godere in prima persona delle disgrazie dei partecipanti, bensì un gruppo di magnati occidentali (dettaglio molto importante), che fino agli ultimi due round hanno assistito da remoto alla competizione, ma che giungono sull’isola misteriosa per partecipare ritualmente a questa insana e folle barbarie. I personaggi restano nascosti per tutto il tempo, indossando sfarzose maschere animalesche, ed anche questo dettaglio è molto interessante. I VIP assistono agli ultimi scontri da una saletta privata allestita come una giungla, fatto che sembra rivolgersi alla vecchia legge omonima secondo la quale soltanto i più forti sopravvivono, ed in questo caso i più forti sono anche i più ricchi, mentre i più deboli, i poveri, cadono sotto i loro piedi.

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Il richiamo all’istinto animale è anche riferibile al modo in cui i partecipanti prendono di petto le sfide, spingendosi oltre le proprie capacità pur di sopravvivere. Il fatto che i personaggi dei VIP siano occidentali, come anticipato prima, la dice lunga sulla lettura critica che si potrebbe dare alla serie, ambientata in pieno Oriente e che dispone di un cast totalmente asiatico, ma non è questa la sede per discutere di possibili frecciatine internazionali. Ad ogni modo, dietro al comunque evidente significato monetario che assume Squid Game, c’è ben altro. C’è una lettura politica che avvalora il tema della vertiginosa discrepanza tra le classi, se pensiamo allo sfarzo del banchetto dei ricchi in confronto ai miseri pasti concessi ogni sera ai concorrenti. In questo senso è molto interessante anche la metafora rappresentata da quella che potremmo definire “ultima cena” dei tre finalisti: ai tre viene offerta la possibilità di consumare un ultimo delizioso pasto che potrebbe essere effettivamente l’ultimo della loro vita, oppure soltanto il primo di una lunga serie di ricche abbuffate.

Squid Game: l’importanza della scelta narrativa

Dal punto di vista narrativo Squid Game tende a giocare molto sui sentimenti dello spettatore, mettendo quest’ultimo a dura prova, da un lato puntando molto sull’aspetto adrenalinico del gioco in sé, che riserva sempre sorprese e risvolti inaspettati, come nel caso del round delle biglie, episodio in cui emerge la reale essenza dei personaggi, dall’altro lato la serie riesce a ottimizzare uno degli espedienti più importanti ed efficaci del sistema narrativo in generale, in questo caso seriale, ovvero la scelta. La scelta che un determinato personaggio si ritrova a fare ad un certo punto della narrazione, è una delle azioni che più serve ad attrarre lo spettatore e ad empatizzarlo con la trama. Ma per essere coinvolgente questa deve essere significativa in termini di importanza, oltre che ben bilanciata. In sostanza deve essere in grado di mettere in seria difficoltà lo spettatore, facendolo interrogare sul che cosa farebbe egli stesso se fosse al posto di quel personaggio. E in Squid Game questo avviene sistematicamente ad ogni puntata, partendo dal come superare la prova del caramello fino ad arrivare a temi molto più complessi come, appunto, fin dove spingersi pur di sopravvivere.

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Per tutta la visione si è accompagnati da un senso di soffocamento, come se fossimo in procinto di essere noi stessi a doverci cimentare in una sfida così paurosa e sconvolgente, ma è proprio nel momento in cui si finisce per compatire i personaggi che si comprende, con profonda amarezza, quanto l’animo umano sia inguaribilmente prevedibile, tranne che per alcuni, isolatissimi casi (come per esempio il sacrifico della giovane Ji-Yeong). Se le azioni del gangster Deok-su risultano essere prevedibili, di certo quelle di Cho Sang-woo e dello stesso Seong Gi-hun, reo di aver ingannato un anziano invalido, sono assolutamente rivelatrici. E ciò che più deve far riflettere è che, in quanto spettatori, tendiamo ad accettare anche le scelte più ambigue ed immorali, perché ci immedesimiamo in cotanta sofferenza.

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