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Squid Game è davvero una serie rivoluzionaria?

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Attenzione, l’articolo contiene spoiler su Squid Game.

L’ennesimo pezzo su Squid Game, sì. Eppure, anche solo un secondo prima del lancio della serie Netflix sudcoreana non sarebbe sembrato così scontato. È successo qualcosa di inaspettato, clamoroso: c’è stato un momento in cui nessuno aveva idea di cosa fosse il gioco del calamaro, l’attimo dopo lo sapevano tutti. Squid Game ha fatto irruzione nel mondo dei social di getto, di prepotenza, senza lasciare scampo. Anche chi non ama le serie tv, anche chi non vuole avventurarsi nei meandri della lingua coreana sottotitolata in italiano, anche chi non si sofferma granché sui post e i meme che compaiono nella home ha almeno intravisto un triangolo, un cerchio e un quadrato, una tuta verde o la bambina di un, due, tre stella. E poi tutti i record e le follie, a partire dal sorpasso su Bridgerton come Serie Netflix più vista di sempre , passando dal famoso numero di telefono che sta facendo impazzire la vera proprietaria, per arrivare al numero IBAN presente nello show su cui i fan hanno davvero versato denaro. Insomma, si tratta di un vero e proprio caso mediatico, un fenomeno che ha coinvolto e continua a coinvolgere tantissimi spettatori o anche solo semplici curiosi. Davanti a una situazione del genere, la domanda sorge spontanea: la serie merita tutto questo trambusto? E, soprattutto, Squid Game è davvero così rivoluzionaria?

Rispondere a questa domanda non è né immediato, né scontato, e per farlo bisogna prendere in considerazione elementi diversi tra loro. Solitamente, la prima cosa che si va a guardare e analizzare per capire se si è davanti a un prodotto originale e innovativo è la trama.

Squid Game

Cosa ci racconta Squid Game?

Chi guarda il trailer o cerca informazioni sulla serie, si rende subito conto che al centro vi è un gioco mortale in cui i concorrenti si sfidano senza esclusione di colpi, perché soltanto chi supererà tutte le prove potrà mettere le mani sul premio in denaro e, soprattutto, salvare la propria pelle. Bene o male, queste due righe di riassunto potrebbero adattarsi anche ad altri lavori letterari e cinematografici che hanno avuto successo qualche hanno fa. Il rimando più immediato – considerando l’attenzione mediatica ricevuta – è quello ad Hunger Games (2008, 2009, 2010): trilogia di libri distopici scaturita dalla penna di Suzanne Collins e adattata in quattro film che segue le vicende di Katniss Everdeen, una giovane che si ritrova a partecipare ai giochi della fame organizzati dal governo di Capitol City per rimarcare la propria supremazia sugli abitanti dei Distretti. A sua volta, è molto probabile che l’autrice della serie abbia preso qualche spunto da un’altra opera, Battle Royale (1999), romanzo dell’autore giapponese Koushun Takami, in cui gli studenti di una scuola media vengono condotti in un luogo misterioso da un governo autoritario e costretti a combattere tra loro fino alla morte.

Accanto a questi nomi, forse i più noti, troviamo di certo altri esempi di storie che ruotano attorno a una competizione di questo tipo. Perciò, dal mero punto di vista dell’idea di base, Squid Game non è una rivoluzione. Ma sarebbe semplicistico e limitato ridurre il discorso a questo, perché un conto è la premessa, un altro conto è come questa premessa viene sviluppata. Ci sono delle sostanziali differenze tra il gioco in cui Seong Gi-hun si ritrova a partecipare e quello dei casi sopracitati. Innanzitutto, in Hunger Games e Battle Royale, i protagonisti sono dei ragazzi che vengono obbligati a giocare, senza possibilità di scelta (una piccola eccezione è l’offrirsi volontaria di Katniss, dovuta però all’estrazione della sorella minore, comunque quasi un obbligo).

In Squid Game è diverso. Di certo non possiamo parlare di libero arbitrio totale e incondizionato, in quanto i protagonisti – persone adulte – sono mossi dalla necessità di cambiare vita, ripagare debiti e sottrarsi da un mondo che li sta soffocando sempre più. Però ognuno di loro ha risposto volontariamente all’invito di partecipare. Inoltre, è stata effettuata anche una votazione dopo la prima prova e la maggioranza ha deciso di interrompere il tutto – un escamotage che, tra l’altro, ha consentito di approfondire le vite private e le storie alle spalle dei personaggi dopo aver dato un assaggio del gioco. Il contrario, forse, avrebbe appesantito l’inizio della serie. Infine, buona parte ha deciso di ritornare.

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Ma è la natura stessa dello Squid Game a essere rivoluzionaria.

Non ci troviamo davanti a un mero uccidetevi tutti, chi resta vince. I concorrenti non vengono aizzati gli uni contro gli altri fin dal primo momento. Certo, ognuno è bramoso di ricevere il bottino destinato al vincitore, però all’inizio non è nemmeno chiaro tutto il meccanismo del gioco. Nessuno si immagina che le persone eliminate verranno eliminate davvero, tanto per cominciare. Ma ciò che crea quel senso di inquietudine che accompagna lo spettatore nel corso di tutta la visione, è l’utilizzo del gioco dell’infanzia. Il contrasto è netto: ognuno di noi è abituato a pensare al mondo dei bambini come a uno spazio quasi fatato, dove si è protetti e dove non può accadere niente di male. In Squid Game hanno preso questa sicurezza e l’hanno distrutta. Un gioco così innocente e semplice come un, due, tre stella diventa una trappola mortale, ed è proprio questo ciò che ci sconvolge così tanto.

Quando diventa più chiaro che ogni morte corrisponde a un aumento del montepremi, la situazione cambia. Ma la morte è quasi un effetto collaterale: uccidere l’altro non è mai parte del gioco, semmai lo è cercare di salvare la propria pelle. Sembra la stessa cosa, ma in realtà c’è differenza.

A rendere così avvincente – seppur in maniera drammatica – il gioco è anche il continuo mutare della sua forma. Le regole sono sempre le stesse, e molto rigide. Sono uguali per tutti, come si continua a ribadire. Ma il format è sempre diverso: ci sono giochi individuali, ci sono giochi di gruppo in cui una squadra sfida le altre e, infine, bisogna allearsi a coppie, per poi rendersi conto che non è una vera alleanza, bensì la scelta del proprio avversario.

Il contorno del gioco è importante quanto il gioco stesso.

A contribuire alla riuscita e all’incidenza di Squid Game non è solo l’infernale gioco, ma anche tutto ciò che gli sta attorno, a partire dal fortissimo simbolismo. Quando a Seong Gi-hun e gli altri viene dato un biglietto da visita con il numero da contattare per aderire alla serie di prove, è un po’ come se venisse dato anche a noi. Su di esso compaiono un triangolo, un cerchio e un quadrato, simboli che non sappiamo che cosa vogliano dire esattamente all’interno dello show, ma che riconosciamo come i simboli di qualunque joystick. Come nel caso dei giochi per bambini affiancati a qualcosa di angosciante, anche qui ci troviamo davanti a qualcosa di noto che però viene impiegato nell’ignoto.

Gli stessi simboli li vediamo sulle maschere di coloro che controllano la situazione e capiamo che segnalano una gerarchia. Le guardie, con la loro tuta fucsia, sono immediatamente riconoscibili anche da chi non ha visto la serie e lo stesso vale per i concorrenti, contraddistinti dalle tute verdi. Questa pregnanza estetica regala alla serie una forte identità che ha di certo contribuito alla sua rapida diffusione sul web. Un aspetto non del tutto innovativo, visto che conosciamo molte serie che giocano su questo – basti pensare alla Casa di Carta, con le sue tute rosse e le maschere -, ma qui è un aspetto particolarmente marcato che aggiunge fascino.

La modalità di diffusione può essere un altro aspetto rivoluzionario?

Non è un discorso universale, perché in molti paesi la serie è stata distribuita subito con doppiaggio. Però è doveroso includere nell’analisi anche questo dettaglio: in Italia il doppiaggio sembra arriverà a dicembre, fino a quel momento l’unico modo per vedere Squid Game è in lingua originale – perciò in coreano – con i sottotitoli in italiano. Certo, si potrebbe usufruire anche del doppiaggio in una lingua straniera che si conosce, potrebbe essere il caso dell’inglese, ma è interessante la scelta di non far arrivare subito il doppiaggio nelle case degli italiani. Una scelta anche azzardata, se ci pensiamo, perché chi avrebbe mai detto che così tanti italiano avrebbero avuto voglia di guardarsi una serie in coreano coi sottotitoli?

Squid Game è stata così forte da andare oltre la barriera linguistica, far scavalcare lo scoglio della comprensione non immediata – perché anche col sottotitolo bisogna fare uno sforzo diverso per vedere uno show, rispetto a quando lo si vede doppiato o avendo conoscenza della lingua. Una forza comunicativa non indifferente che non sembra avere precedenti: qualcuno ricorda l’ultima volta in cui ci si è messi in massa a guardare una produzione coreana senza adattamento?

Ma quindi qual è la risposta definitiva alla domanda iniziale?

La rivoluzione di Squid Game non sta nel creare qualcosa di completamente e assolutamente nuovo, quello no, ma nel rielaborare in maniera efficace, accattivante e originale elementi già utilizzati in passato, spingendosi oltre i limiti e aggiungendo tocchi inaspettati. Del resto, moltissimi spettatori l’hanno divorata – nonostante siano pochi a dire che effettivamente si tratti della serie del secolo. Come si spiega questo paradosso? La ricetta è per forza in parte segreta, forse non la sveleremo del tutto, ma una cosa è certa: funziona benissimo.

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