Tutta l’efferatezza che si vede in Squid Game, la serie del momento, fa venire la pelle d’oca. Abbiamo assistito realmente a qualsiasi tipo di violenza umana, fisica o psicologica che sia, con uomini e donne messi di fronte alla più grande paura che si possa concepire, quella della morte. Una morte vista in faccia, a tu per tu, alla quale anche lo spettatore si sente così vicino. E nonostante le scene di violenza fisica presenti nella serie non si nascondessero minimamente, anzi, ad apparire più cruento è stato il lavoro svolto sulla mente dei partecipanti al fatidico gioco, totalmente disumanizzati e posti di fronte ad un’unica possibilità per far fronte alla morte: fare qualunque cosa pur di sopravvivere.
Pillola rossa o pillola verde
Squid Game è piena di situazioni che si potrebbero definire chiave, di scene clou e di improvvisi cambi di direzione. E proprio in questo senso, se c’è un momento che ha letteralmente anticipato per intero il leitmotiv della serie, lo vediamo sul finale della prima puntata, quando dopo aver appreso la reale entità del gioco i partecipanti si ribellano, ben intenzionati ad andarsene ed appellandosi alla terza clausola del contratto di partecipazione che prevede che in qualunque momento indistinto della competizione, se la maggioranza preferisce battere in ritirata, il gioco può e deve considerarsi concluso. Tuttavia, una volta messi di fronte alla idilliaca visione della sfera che si riempiva di banconote, tutto è cambiato.
Uno degli obiettivi principali di Squid Game è proprio quello di rivolgersi allo spettatore e interrogarlo su quali sarebbero state le sue mosse, e questo appena descritto è il momento in cui ciò avviene per la prima volta nella serie, ed è sicuramente quella situazione chiave che mette concorrenti e spettatore di fronte alla cruda realtà di Squid Game, proponendo un insano patto risolutivo in grado di spingere l’animo umano a compiere una scelta tossica quanto indispensabile. Eppure, in questa precisa scena a prevalere, seppur di un solo voto, è il buon senso (o quel che ne resta) dell’uomo che posto di fronte all’ignobile denaro come unico scopo di sopravvivenza, ha il coraggio di dire “no, grazie”. Il tutto veicolato, manomesso ed indirizzato dalla geniale mente di Il-nam, colui che consente democraticamente ai veri partecipanti di pensarci ancora un pò su e di non prendere decisioni affrettate, rimandandoli tutti la fuori a combattere con i propri demoni. Il-nam non fa nient’altro che mettere l’uomo in condizione di scegliere tra cosa sia meno peggio tra la quasi sicura morte e la misera disperazione. Lo stesso che vediamo invocare l’aiuto del Front Man quando si scatena il barbarico inferno durante la prima notte di anarchia, e lo stesso che finge di sacrificarsi per poi rivelarsi nella sua vera pelle come la mente dietro al macchinario.
Il fuorviante senso di democrazia di Squid Game
Posto di fronte alla scelta di continuare a rischiare di morire senza nemmeno averci pensato un pò, l’uomo fa marcia indietro e si rintana come un topo per razionalizzare il tutto. E nel momento in cui si ritrova di fronte allo squallore di sempre però qualcosa è cambiato, perché a prescindere dalla preferenza espressa durante la votazione, ora ha un tarlo nella testa, un grillo parlante che gli fa vedere la solita miseria con occhi diversi, che lo portano a rimpiangere la paura di morire. Anche noi spettatori tendiamo ad avere un approccio manipolato alla realtà dei concorrenti. Il secondo episodio, intitolato non a caso Inferno, ci trascina ad assaporare voyeuristicamente la tragicità della miseria, del nulla cosmico, della mediocrità di tutti i giorni che ci viene mostrata nella sua più totale essenza distruttiva o autodistruttiva a seconda del soggetto, e noi stessi pensiamo che forse sarebbe meglio affrontare un gioco mortale piuttosto che vivere una vita come quella. Il risultato è che una importante fetta di coloro che avevano disperatamente inseguito la ritirata ora si ritrovano di nuovo lì, con la vergogna di un ladro, ad ammettere pubblicamente di preferire morte certa a quello schifo di mondo.
La libertà di scegliere è solo apparente, funge più da selezione naturale, perché chi non è tornato forse non era abbastanza disperato da rigettarsi nella mischia, e invece in Squid Game c’è spazio solo per i peggiori dei peggiori, per i più disperati, folli e pronti a tutto. E il gioco ha inizio.
Una partita da non giocare
Nel resto della competizione le scelte sono pressoché tutte da compiere ad occhi chiusi. Non esiste alcun tipo di criterio o meglio, non viene svelato, e i concorrenti puntualmente si trovano a dover scegliere tra ombrello e triangolo o tra numero 1 e numero 16, affidandosi al proprio istinto ma ben consapevoli che dietro alla fatalità del caso si cela la possibilità di sopravvivere. Ed è proprio questo ciò che pian piano logora da dentro l’anima dei concorrenti. Gi-hun alla fine del percorso è devastato, corroso da ciò che ha vissuto, dall’aver visto la morte in faccia e i propri compagni andarvi incontro, dalla presa coscienza di quanto sia meschino e rivoltante l’animo umano e soprattutto dalla consapevolezza che le proprie scelte abbiano inficiato sul suo percorso e su quello degli altri e che quindi c’è la sua impronta dietro a tutto quel dolore e a tutta quella morte disseminata. Gi-hun ha scelto l’ombrello perché ingenuamente gli ricordava sua madre, ha scelto roccambolescamente il numero 16 perché troppo codardo per scegliere subito un numero, ma ha anche scelto di fare squadra con un uomo anziano per pietà per poi ingannarlo e pugnalarlo alle spalle pur di sopravvivere. Gi-hun ha tradito quasi tutti lungo Squid Game, a partire dalla sua anziana mamma alla quale ruba i soldi fino ad arrivare al suo “padre spirituale” Il-nam, ingannato al gioco delle biglie. Ha scelto di sopravvivere tradendo ciò che restava della sua integrità morale, e la cosa che lo spettatore non accetta fino in fondo è proprio che al suo posto avrebbe fatto allo stesso identico modo.
Ma l’anno di penitenza che Gi-hun passa senza spendere nemmeno un centesimo del montepremi, beh, non è proprio da tutti. La via per la redenzione morale è proprio quella, e nasce nel momento in cui il protagonista sceglie di non finire Sang-woo in punto di morte, preferendo tornare a casa senza un centesimo.
In Squid Game tutti sono liberi di scegliere, ma restano facilmente corrotti di fronte al denaro mostrandoci senza fronzoli il lato più sinistro dell’umanità. Se già accettare questo compromesso è difficile, per lo spettatore, arrivare a compatire ed empatizzare certe gesta è ancora più avvilente, ed è proprio qui che Squid Game ci voleva condurre.