È stata la Serie Tv rivelazione del 2016, un fenomeno di culto clamoroso tanto nelle proporzioni quanto nelle tempistiche. Stranger Things ha praticamente conquistato tutti e, a un anno di distanza, la cassa di risonanza della prima stagione non si è ancora esaurita. Proprio in questi giorni, infatti, sono state ufficializzate le nomination dei prossimi Emmy Awards, in cui la Serie targata Netflix figura candidata nella categoria ‘Best Drama’.
Un premio, l’Emmy, che in teoria punta a premiare il meglio del meglio di quanto la Tv – intesa in senso lato data la pluralità delle piattaforme di cui disponiamo – offre. Ne consegue che – sempre in teoria – la giuria operi un’accurata selezione per individuare i titoli più meritevoli di tale riconoscimento, in un panorama seriale sempre più vasto, sia dal punto di vista quantitativo che, soprattutto, dal lato della qualità.
Ciò impone una riflessione riguardo al concetto di capolavoro, termine inflazionato che diventa addirittura abusato quando viene utilizzato a corollario del successo di un prodotto. Se restituiamo al concetto la sua funzione elitaria, tesa a indicare qualcosa di eccelso e fuori dall’ordinario in tutte le sue componenti, possiamo ancora considerare Stranger Things degno di tale appellativo? Tentiamo di scoprirlo.
Poichè il successo influenza, inevitabilmente, il giudizio relativo alla qualità della Serie Tv, cerchiamo di capire prima di tutto perchè Stranger Things sia diventato un cult.
In un saggio su Casablanca del 1977, Umberto Eco spiega quali elementi rendono oggetto di culto un prodotto. Tra questi ritroviamo la capacità del prodotto di sfornare battute memorabili, destinate a essere ripetute ossessivamente dagli appassionati, e la predisposizione a creare situazioni archetipiche, in altre parole clichè. Il discorso potrebbe valere nella sua totalità per Stranger Things.
Se nel primo caso basterebbe citare il tormentone “Will?” per capirci, ancor più ampia è la gamma di esempi che ci offre il secondo aspetto. Potente, infatti, è l’attitudine al citazionismo della Serie Tv dei Duffer Brothers, i quali hanno saccheggiato gran parte dei film horror e di fantascienza degli anni ’80. Neanche a dirlo il periodo di massimo splendore per i generi succitati.
A partire dai bambini in bicicletta dei sobborghi americani – I Goonies, E.T., Stand By Me – fino ad arrivare alle presenze maligne di un mondo al di là dello specchio – Poltergeist, Labirynth, La Storia Infinita – passando per il recupero del mito del Mostro, da cui il riferimento a La Cosa, Alien, Gremlins. Anche la colonna sonora, fredda e ipnotica, rappresenta un fantastico miscuglio di temi carpenteriani, sonorità horror e delle canzoni più in voga del periodo.
Ciò malgrado la Serie non si ferma al citazionismo fine a sè stesso, ma compie un passo in avanti sia nelle tematiche affrontate che nella freschezza con cui recupera determinate atmosfere.
Da un lato, infatti, Stranger Things palesa una voglia di stupire e raccontare che la rende figlia degli anni Ottanta, non epigone. È una Serie “fatta apposta” per far affezionare ai personaggi, empatizzando con le loro avventure. In tal senso non si può non citare l’incredibile lavoro effettuato sui bambini-attori che, nelle figure di Mike, Eleven e Dustin in particolare, raggiunge picchi elevatissimi.
D’altro canto abbiamo uno sceriffo maledetto, Hopper, che beve e fuma le canne, per cercare di alleviare il dolore della perdita della figlia, morta di cancro; un adolescente che è costretto a lavorare per aiutare economicamente una famiglia della classe operaia, composta dal fratellino nerd e dalla madre single; un’altra adolescente, Nancy, alle prese con la prima esperienza sessuale.
Inoltre in Stranger Things si muore per davvero, non vi è la sola minaccia, il mero sentore tipico di una certa tipologia di film sopra citati. Basti pensare alla sorte della povera Barb, altro tormentone che ha contribuito a rendere la Serie un cult. Questo grazie soprattutto a un mostro che torna ad essere Mostro. Che spaventa, è insensibile, non dorme mai e non ha sfumature di grigio: “solo” tanto sangue e del vecchio, sano orrore primitivo.
Ciò basta a rendere Stranger Things un capolavoro? Probabilmente no.
Il recupero di un certo immaginario a cui abbiamo fatto più volte riferimento durante l’articolo è al tempo stesso punto di forza e limite della Serie. Per quanto Stranger Things si faccia guardare con un certo livello di trasporto – e questo è senza dubbio sintomatico di un’ottima sceneggiatura – non è così difficile comprendere dove si stia andando a parare.
Probabilmente la vera rivoluzione sarebbe stata cercare di recuperare quelle atmosfere, ambientandole ai giorni nostri. Il prodotto avrebbe perso in gran parte l’impatto che l’effetto nostalgia ha generato, ma ne avrebbe guadagnato in ricercatezza e voglia di innovare. Oppure, giocare sul parallelo tra prima e dopo, mostrandoci, nella seconda stagione, Mike, Eleven, Will e gli altri da adulti.
Quali ripercussioni hanno avuto quelle avventure, sui bambini, una volta cresciuti? Come hanno interiorizzato quell’esperienza? Le pellicole a cui la Serie si ispira, giustamente, non l’hanno mai mostrato per non disperdere parte del loro fascino. Stranger Things, tuttavia, avrebbe potuto darci le chiavi di quel mondo. Un mondo che tanti film ci hanno precluso, i Goonies ci hanno solo fatto intuire e altri, come Stand By Me, ci hanno solo raccontato.
È evidente che l’intento di Netflix e dei Duffer Brothers non fosse così ambizioso. Il trailer della seconda stagione, d’altra parte, ne è una ulteriore riconferma. Tuttavia se la percezione qualitativa rischia di ridimensionarsi, il fascino della Serie resta intatto. Stranger Things merita di essere vista a prescindere. Chi ha detto, d’altra parte, che bisogna guardare soltanto capolavori?