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10 centimetri

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L’eroe sporco, l’eroe tutt’altro che limpido o totalmente diligente. L’eroe maledetto, macchiato dalla corruttibilità della sua natura, quella umana, che anche nella sua espressione più pura non riesce a brillare del tutto… appunto perché umana. E se la storia ci insegna che ogni dietro grande condottiero, o guerriero impetuoso che dir si voglia, si nasconde sempre un mostro nell’armadio, Stranger Things quel mostro non ce lo nasconde per niente e anzi ce lo fa vedere in tutta la sua piccola grandezza.

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Non c’è una stella, per quanto minuscola, che non canti con una voce d’angelo nel suo moto orbitale, e non s’unisca sempre cantando in coro ai cherubini dagli occhi giovani. E questa musica sta pur nella nostra anima immortale, anche se noi non possiamo sentirla, finché resta racchiusa in questo involucro nostro d’argilla, rozzo e corruttibile.

Shakespeare

L’involucro è la rozzezza dei nostri istinti che sopprimono il canto che possiamo sprigionare. In un mondo di demoni, possessioni, tradimenti e individui senza scrupoli, è molto più semplice additare le colpe a questo immobilismo di coscienza primordiale piuttosto che lottare e pagare lo scotto del combattimento. Nel mondo di Stranger Things è addirittura molto più biasimabile il voler estraniarsi, il voler far parte della folla che sta a guardare. Qui i mostri non sono nascosti nei nostri armadi immaginari, nel nostro vissuto, non sono metafore, qui i mostri camminano con noi.

Ed è dunque paradossale l’estremo realismo che vediamo nella lotta tra bene e male e nella figura dell’eroe.

Jim Hopper è un eroe “sporco”, “brutto”, “rozzo”, fallibile, schiavo degli accenni bestiali della sua personalità, suddito dell’ira, dell’orgoglio e della pigrizia. Eppure è il massimo testimone di quel passaggio tremendamente suggestivo e poetico poc’anzi tradotto di Shakespeare. Hopper è un guerriero lucente che nonostante il suo involucro d’argilla sia apparentemente indistruttibile, inscalfibile, riesce a tenere aperto uno spiraglio, e da quello spiraglio poter sprigionare la sua luce interiore per farla vedere al mondo.

Non è facile incassare una vita, subire sconfitte e pagare sempre i propri errori in un mondo di debitori, di gente che corromperebbe ogni grammo di anima pur di non pagare. Eppure lui è lì, quasi un eremita, una persona sola, apparentemente immobile in balia dei suoi tormenti. L’ultimo nome papabile per un’impresa eroica, di cuore. Da qui il paradosso dell’eroe che si pone. Perché se nella letteratura più classica l’eroe è quello che dopo un’esistenza linda e pinta, forte del suo potere, prende in mano la situazione, affronta il suo destino e vince sul male, nel mondo reale invece il paladino è colui che è disposto a perdere il suo tutto anche per difendere il niente degli altri.

Hopper diventa un eroe per caso, inusuale. Viene rapito da un vortice di eventi apparentemente per via di un fatto fortuito ma la realtà è ben diversa.

hopper e eleven

Non è costretto a fare quel che fa e ad accollarsi il peso del mondo perché deve, perché ha i mezzi, no! Lui lo fa perché vuole e perché sa bene che vuol dire perdere qualcosa in grado di dilaniarti l’anima e destabilizzare la tua esistenza. Lo sa bene, non può quindi permettere che qualcuno patisca le sue stesse pene. Forte non del suo potere ma del suo tragico trascorso si fa peso del fardello che tocca a chi vuol lottare, e di conseguenza di tutti i suoi rischi.

In questo turbine di sacrifici è a suo agio, tanto che in esso vuol provare a ricominciare, a rifarsi una vita. Ci prova, ci riprova e si incazza quando vede che il destino non vuole dargli la ricompensa per il suo dolore. Vive nell’angoscia e nel disdegno, si destreggia bene in quel limbo, ma appena vede uno spiraglio ci si fionda dentro, che esso sia oscuro o lucente. Che sia accudire una bambina reietta portatrice di guai e caos o che sia una donna tormentata, paranoica e al centro di un oscuro piano artefatto da creature di altre spaventose realtà.

C’è quindi una dura ambivalenza in cui doversi muovere per Jim Hopper. Due desideri che non possono coadiuvare in una stessa direzione.

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Puoi provarci quanto vuoi, puoi fare il possibile, puoi salvarti per il rotto della cuffia, grazie al tuo talento o alla dea bendata, ma non puoi pretendere di raggiungere un determinato posto se per farlo devi scegliere tra due sentieri opposti. Combattere fino allo stremo per una causa che è fin troppo grande per un essere mortale non è per niente integrabile con il desiderio umano di un dolce cuore caldo da affiancare al tuo. E lui lo scopre nel momento in qui si trova nel punto di non ritorno dell’eroe, quello in cui l’eroe diventa il salvatore.

Perché se di eroi ne è pieno il mondo, di martiri ce ne sono ben pochi.

Martire ci diventi quando capisci che dopo il massimo che hai fatto esiste ancora un piccolo pezzettino da poter donare, l’ultima cosa che puoi dare. La tua vita. Quando capisci che il dolore può fare bene.

Jim Hopper supera quel confine, quella linea invisibile, diventa il martire che deve fare quel passettino finale, quel sacrificio supremo. Quel tributo che solo un vero eroe può fare, quello di cui i frutti non vedrà mai, quello il cui esito sarà ignoto. Tu muori nella speranza non nella certezza.

Non ci pensa un secondo. Meglio rischiare il tuo tutto, piuttosto che pagare con il tutto di tutti.

Hopper è un eroe anormale nel mondo sottosopra di Stranger Things…

Nel suo ultimo cenno, sorriso insanguinato, vediamo lo sguardo di un uomo uscito dalla caverna, che finalmente ha vissuto, finalmente ha di nuovo amato e ora può andare, triste ma felice, verso la morte ma vivo più che mai. Chiudendo una porta, ma lasciandola al contempo aperta. Almeno di 10 centimetri.

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