E allora noi andavamo lenti perché pensavamo che la vita funzionasse così, che bastava strappare lungo i bordi, piano piano, seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere. Perché c’avevamo diciassette anni e tutto il tempo del mondo.
Siamo la generazione che di sicurezza ha più distanze che cinture. Siamo la generazione erasmus, dipinta a tinte desaturate da una generazione incravattata che ci ha lasciato nell’oblio e ora ci accusa di essere un branco di festaioli senza radici. Siamo la generazione precaria, che non ha voglia di lavorare, di fare gavetta, di diventare inidipendente. Siamo la generazione di mezzo, quella che è ormai adulta ma che si sente ancora indissolubilmente legata a un’adolescenza ormai fumosa, lontana. Siamo una generazione che nasconde la solitudine dietro una manciata di cuori virtuali.
Ecco perché, in questa solitudine, Strappare lungo i bordi di Zerocalcare ci fa sentire meno soli.
Nello srotolarsi dei trattini, arriviamo a un certo punto in cui non sappiamo più dove andare. Che sia un diploma, una laurea, un posto di lavoro precario. Arriva per tutti quel bivio maledetto che non avevamo previsto. Forse perché nel rincorrersi di giorni tutti uguali passavamo da una pagina di un libro a un nuovo film nella sala del cinema di quartiere, senza pensare al fatto che il tempo passava. Tutto scorreva, la vita scorreva ma c’era qualcosa di noi che rimaneva fermo. Fin quando un giorno non ti sei svegliato e qualcuno ti ha dato uno scossone chiedendoti “e ora cosa fai nella vita?”. E tu, in quel momento, non hai la più pallida idea di cosa tu stia facendo o di dove tu voglia andare.
In quel vortice sbiadito di presente e futuro, ti scorrono davanti gli occhi le immagini delle vite perfette di qualcun altro. C’è chi ha trovato l’altra metà della mela, chi ha messo su famiglia, chi ha trovato un lavoro meraviglioso nella città dei suoi sogni. Poi ci sei tu, che della mela non hai neanche il torsolo, l’idea di una famiglia quasi ti spaventa e del lavoro neanche l’ombra. Sei solo e sei rimasto indietro, mentre tutti corrono. Sei grande e la vita non è più un futuro lontano che hai il tempo di costruire. Almeno questo è ciò che sembra.
E semo pure stupidi. Perché se impuntamo a fa’ il confronto co le vite degli altri. Che a noi ce sembrano tutte perfettamente ritagliate, impalate, ordinate. E magari so così perfette solo perché noi le vediamo da lontano
Strappare lungo i bordi ci ricorda che in questa corsa non siamo soli.
Che ogni persona, dietro l’immagine bidimensionale che espone al mondo, ha un universo di pensieri e di paure. Il baricentro dell’universo si sposta dalla nostra mente raggomitolata al frastuono intenso delle vite che ci circondano.
Quindi perdersi o trovarsi immersi nell’incertezza dell’essere è una normalità che ci hanno venduto come anomalia. Che poi, chi è questo mercante di stereotipi sociali neanche lo sappiamo. Anzi, a volte quel venditore di cartonati da intagliare siamo proprio noi.
In questo stesso frastuono, emerge con allarmante chiarezza la difficoltà relazionale di questa generazione che colleziona silenzi.
La prima grande reazione alla realizzazione della perdizione è una chiusura ermetica della nostra sfera sentimentale. Tutto si mantiene in superficie, come se ci fosse un segnale di pericolo che pone il divieto di superare un certo confine. Siamo così abituati all’incomunicabiltà che l’esposizione del pensiero profondo diventa quasi una vergogna. È più semplice spogliarsi dei vestiti che spogliarsi delle insicurezze e delle emozioni.
Così, scappiamo prima che l’occasione si presenti.
Viviamo arginando un ostacolo alla volta, finché quella massa informe di occasioni mancate ci presenta un conto salatissimo, e non siamo più in grado di pagarlo. Continuiamo a nascondere tutto, perché qualcuno ci ha detto che è così che si fa. Basta andare a prendere un gelato, mandare un CV e rimandare a domani quello che non si è detto oggi.
Ma alla fine della fiera basterebbe evitare di confrontarci con gli altri, vivere la nostra vita ondeggiante come un solitario filo d’erba in una giornata di primavera e scrollarci delle paure. Perché in fondo non dobbiamo spiegare niente a nessuno, possiamo diventare chi vogliamo, e ciò che siamo non definisce il nostro valore. Che poi, se non sai cosa vuoi fare, va bene anche così.
Non ci sono forme da strappare lungo i bordi o progetti da ritagliare, la felicità non si insegue con il fiatone, ma si ritrova nelle piccolezze di ogni giorno, magari in una notte fonda e silenziosa con un gelato e l’ennesima replica di una vecchia serie tv.
Allora in questo fumetto a puntate è stato come guardarsi allo specchio. Io non sono sola, tu non sei solo. Non siamo anomalie di sistema da nascondere sotto i tappeti del “va tutto bene, sto mandando i curriculum“. Ho capito che va bene anche se non va tutto bene, e da qualche parte la soluzione si scioglie come un gelato nella sua vaschetta di polistirolo.
Siamo la generazione che nasconde le cadute e nel silenzio appone i punti di sutura all’ennesima ferita, spesso autoinflitta. Siamo la generazione delle cicatrici nascoste, quelle sbiadite e quelle che sembrano ancora sanguinare. Una generazione di medaglie mancate, occasioni schivate e un futuro traballante. Però oggi ci sentiamo meno soli e nel prato del destino ci lasciamo accarezzare dal vento e ondeggiamo insieme, un trattino dopo l’altro, con la voce di Zerocalcare in sottofondo.
La cicatrice non passa, è come una medaglia che nessuno ti può portare via