C’è qualcosa di estremamente rassicurante nel sapere che non siamo del tutto spacciati. Che ancora, anche se siamo come siamo, qualcuno che riesca a comprendere i nostri distruttivi fallimenti c’è, e che – proprio con questi – riesca a montarci su un’opera d’arte che difficilmente scorderemo. Chi ha guardato Strappare Lungo i Bordi è stato totalmente privato del diritto all’apatia, del diritto a starsene un po’ per fatti suoi senza effetti collaterali sul piano emotivo. Siamo stati buttati in mezzo ai lupi, e poi sbranati. Perché sì: in Strappare Lungo i Bordi, c’eravamo proprio tutti, e senza i filtri di cui ogni giorno ci serviamo per cercare di nascondere tutto quello che, alla luce, ci renderebbe reali. Troppo reali.
Zerocalcare non ha chiesto il permesso a nessuno, decidendo di fregarsene – come un Secco qualunque – e sbugiardarci tutti. Lo ha fatto per spiegarci meglio, per raccontare di noi in modo tale che la nostra assoluzione possa in qualche modo arrivare. Insomma, in queste sei puntate, ha faticosamente cercato di dire: sono fatti, però non sono cattivi, giuro. È che sono inadeguati. Non sanno che fanno, ‘sti qua.
Quanta fragilità in Strappare Lungo i Bordi. La quantità di vulnerabilità è stata così tanta da farci chiedere se siamo davvero così messi male, se proprio non c’è un modo per riuscire a fare meglio.
Alla fine non migliora neanche Zerocalcare, rimane tutto quello che è stato: lo stesso che coverà per sempre il rimpianto di non aver dato la giusta attenzione a qualcosa che – anche se silenzioso – poteva essere sentito. Non c’è da farne un dramma, però: perché in mezzo a tutte queste incomprensioni, in mezzo al non detto, qualcosa dentro – di tutta questa storia – Zero se lo porterà, anche se terrà in mano quel rimpianto giocandoci talmente tanto da diventare egli stesso un rimpianto. Ma questo lo sai già bene anche tu, perché Strappare Lungo i Bordi ha raccontato anche di te, di quello che hai perso o hai voluto perdere.
Ha parlato di come stai perdendo tempo dentro le tue paranoie, perché uscire da esse significherebbe affrontare un cambiamento, darsi da fare. Ma tu vuoi sprofondare. Ha parlato di quanto hai paura di stabilizzarti emotivamente, perché questo implicherebbe costanza, dedizione, impegno. Per non parlare di quando ha raccontato quanto – alla fine – non c’avevi capito niente di tutte quelle cose che ti avevano insegnato, anche se ti avevano assicurato che a un certo punto le avresti comprese perché il tempo aiuta sempre, è un mezzo di trasporto ed è con lui che soluzioni arrivano a un certo punto. Però ormai le questioni sono due: o noi abbiamo sbagliato la stazione in cui aspettarle, o questa è una stro***ta.
Non è che non ci stiamo con la testa, eh. Però fatichiamo.
Fatichiamo a fare come Secco, a prendere la vita come viene. Fatichiamo a uscire dai margini della difensiva, decidendo che stare lì sia l’unica scelta sensata, l’unica cosa che possa assicurarci che rimarremo integri. Insomma, decidiamo di fare come Calcare, annullando totalmente ogni tipo di primo passo perché consapevoli che esporci implichi metterci a nudo, e forse in carne e ossa siamo meno belli di quello che pensiamo. Forse è meglio così: da lontano, in silenzio, senza che le nostre azioni facciano un sopralluogo distruttivo, pronto a distruggere quel minimo comune multiplo tra noi e quello che intanto si era creato, che non era spaziale, eh. Però era tranquillo, sicuro. Se stiamo in silenzio, dice Calcare, non dobbiamo prenderci nessuna responsabilità. Ma se urliamo, le parole prendono possesso della situazione, e alla fine l’eco ce le fa ritornare indietro con tutte le conseguenze del caso.
Strappare Lungo i Bordi non è la nostra guida, e non è neanche un foglietto illustrativo che ci consiglia cosa fare e cosa no. È solo una piccola, ma infinita, grande somma di momenti che sono toccati a ognuno di noi. Sono i sogni che non riusciamo ad avere, sono il nostro cinismo, sono la macchia nascosta che non vede nessuno nel nostro vestito ma che noi – invece – vediamo perfettamente. Sono quello che vorremmo essere, e tutto quello che in realtà facciamo per non esserlo. Però poi alla fine, chissà come, troviamo un senso in tutto questo e in quello che ci ostiniamo a voler rimanere, consapevoli che per salvarci il tempo forse ce lo siamo già giocati. Abbiamo creato un certo equilibrio – come dicono le persone che sembrano avere quella pace mentale per cui noi appariamo come un branco di trogloditi superficiali e frignoni – tra i nostri disastri e quello che, invece, riusciamo a saper fare quasi bene. Forse in mezzo a tutto questo, una luce può ancora essere accesa. Forse la stessa che si è accesa in Zerocalcare nel finale. Quella che alla fine un mezzo sorriso glielo ha fatto fare, quella che ti fa dire che anche sei fatto così, e sei fatto male, menomale che ci sei in questo mondo.