Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla prima stagione di Strappare Lungo i Bordi
Ci si rivede, annoiati all’aeroporto. Il volo ancora lontano nella prevedibilità di un imprevisto che si presenterà solo nel momento in cui deciderai di fare il matto, seguire le indicazioni della carta d’imbarco e stare là un’ora prima. Una, altro che tre. Il tempo scorre lentissimo, tra una manciata di caffè e mezzo pacchetto di Camel. Scorre lentissimo mentre i pensieri corrono veloci e ci portano fatalmente ovunque non abbiamo mai voglia di andare. In fuga, per schivare una vita che non sarà mai fino in fondo quella che avevamo sognato. Ma neanche quella che qualcun altro aveva deciso di configurare per noi, trentenni intrappolati in una perenne generazione di mezzo. Ecco, la nostra generazione è un po’ la sala d’attesa di un aeroporto in cui non si parte né si arriva, ma sarebbe un po’ troppo didascalica l’idea di sentirci fermi là: non se lo merita chi legge e manco chi scrive.
Preferibile quel genio di Zero, per parlare di noi. Parlando di sé al punto da universalizzare i concetti, forse senza manco volerlo fino in fondo. Magari con Strappare Lungo i Bordi voleva raccontare principalmente la sua storia, e invece si è ritrovato a unire in un unico coro un esercito di trentenni precari. Inclusi quelli con l’indeterminato, arrivando fino all’isola felice degli statali. Perché siamo precari per un milione di motivi: non è mai solo una questione di soldi. Siamo amanti precari e precari amici, figli instabili e padri inadatti. Abbiamo cercato di rendere immortali i vent’anni per poi riscoprirci un bel po’ più vecchi da un momento all’altro. Forse sì, mentre un dentista con cinque anni in meno di noi ci infila le mani in bocca: ma chissà che vita sentimentale ha, il dottore. Probabilmente sì, stiamo sulla stessa barca.
Strappare Lungo i Bordi siamo noi, tra una risata e l’altra funzionale per scacciare i cattivi pensieri senza mai eliminarli del tutto. La commedia, dentro il dramma. E il dramma nella commedia, ma eccoci ancora a scadere nella vile retorica. Succede costantemente, mentre si vive dentro il mondo di Zero per quell’ora e mezzo abbondante: banali pensieri i nostri (mica i suoi), di quelli che trovi dentro i cioccolatini della nonna. Banali eppure speciali nel riunirci dentro una piazza in cui pensavamo d’essere soli. Soli, sul serio. Immobili ad annaspare mentre il resto del mondo corre, ci sorpassa e ci doppia un migliaio di volte. Ma non è così, e ci voleva lui per spingerci a comunicare, aprirci un po’ (ma giusto un po’) e farci capire d’essere molto meno unici di quanto pensassimo. Ordinari, nello ristabilire le estremità di una linea tratteggiata che a un certo punto avevamo persino dimenticato, senza per questo giudicarci manco per un secondo. E profondissimi, allo stesso tempo. Fin troppo, tanto da spaventare noi che con quei pensieri, di solito, giochiamo a nascondino. Vincendo ogni singola volta.
Perdendo ogni singola volta, che cavolo.
Perché non è semplice per nessuno darsi degli obiettivi, fallirli, rifugiarsi nell’illusoria comodità dell’inerzia, far finta di niente e poi svegliarsi all’improvviso, rendersi conto di aver bluffato col tempo nell’impossibilità di farla franca e uscirne bene.
Ci voleva Zero, per dirci che sarà sempre abbastanza tardi ma non lo sarà (quasi) mai davvero. Per piegarci in due dalle risate con l’eterno dilemma della Margherita contrapposta alla Stoc***o, per poi affondare una coltellata al ventre col viaggio a Biella. Ci voleva lui per parlare a nome nostro senza farlo per un istante e senza che nessuno gliel’avesse in qualche modo chiesto. Ci voleva lui, per restituirci il senso di un’età che sembra una terra di confine in cui regna l’anarchia e paiono volerci far giocare senza darci uno straccio d’equipaggiamento. Ma loro chi? Non sempre è colpa d’un altro, anche se spesso è così: siamo le vittime dentro i carnefici, e aridaje con la retorica.
Ci siamo quindi noi, in Strappare Lungo i Bordi. Nudi e inermi di fronte ai demoni che troppo spesso non vogliamo proprio saperne di affrontare. La coscienza di Zero, nel più insulso dei titoli che un’opera del genere avrebbe potuto avere, si schiude col fine di raccontare, raccontarsi e raccontarci. Ci racconta, dopo una vita trascorsa a ergere muri di cartapesta e a chiuderci entro i confini dell’incomunicabilità. Tale per nostro volere, non perché una forza superiore abbia deciso per noi. L’abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo, dopo aver passato qualche ora a domandarci se potesse essere il caso di tratteggiare nuove linee per restituirci alle nostre ambizioni.
Forse si esagera un po’, perché tutto sommato a una certa la quadra si trova (quasi) sempre, ma il punto è che pochi tra noi avrebbero la forza e la volontà di sfidare le paure, farci puntare un riflettore addosso e spogliarci nel palcoscenico di Netflix, di fronte a una platea potenzialmente sterminata. Noi no, Zero sì. E dovremmo ringraziarlo per questo, come ha fatto il nostro Emanuele Di Eugenio in una splendida lettera sui generis pubblicata nei giorni scorsi. Oppure sperare di incontrarlo un giorno nell’area partenze di un aeroporto, chissà dove. Con troppo tempo da sprecare, mal speso nell’investimento di inutili certezze. Per evitare l’imprevisto, camminare nervosamente e osservare gli altri correre all’impazzata. Di corsa, mentre passeggiano lenti a loro volta in chissà quale direzione indefinita. Fuori dai bordi, borderline. Sarebbe bello incrociarlo per un secondo, Zero. E non dirgli niente, manco fargli un cenno. Limitarsi a sorridere, al massimo offrirgli un gelato. Condividerlo per condividersi, senza aver bisogno di mezza parola.
Perché siamo fatti così, noi tutti. Chi più, chi meno. Chi per un motivo, chi per un altro. Chi in fuga da questo, chi da quello. A trent’anni, forse oltre. Forse da sempre, al di là delle barriere generazionali. Per l’amore, il denaro o l’amicizia. Forse per tutto, forse per tutt’altro. Non ci conosce, eppure ci ha capito meglio di chiunque altro. Farne un’opera d’arte universale, di questa esistenza disorientante solo e soltanto nostra anche se di chiunque, è davvero per pochi. Questo è certo. Senza alcun forse, per uno di noi. Per noi, davanti allo specchio.
Antonio Casu