Talvolta è necessario circoscrivere uno spazio attorno a sé, dilatare un solo secondo sulla linea del tempo, per poterlo ricostruire.
Quando quello spazio sfugge al proprio geloso controllo, diventando un’autarchia, è difficile accettare che quei mattoncini sull’asfalto a fare da rilievo formano ciò che non puoi più controllare; quei mattoncini che delimitano il tuo spazio ormai viziato e che, se osservi attentamente, scrivono e danno forma alla (parola) suburra.
Perché per quanto indomito, perfino il lupo ha bisogno di essere guidato dall’affabilità di un rifugio apparentemente sicuro.
“E Roma, si sa, i lupi l’hanno fondata”.
Il meccanismo di autodifesa dei tre protagonisti non segue logiche tanto diverse da quelle dell’alienazione, in questo settimo e ottavo atto: quel telos che rappresenta l’eterno equilibrio precario tra giusto e sbagliato diventa la necessità di un luogo familiare (l’importanza della “fortezza emotiva” è un tratto fondamentale nella comprensione del personaggio di Aureliano prima, e di Numero 8 poi) per Aureliano; un tradimento catartico per Gabriele (mosso fino a ora da quell’aidos paradossale, tramite la quale dalla vergogna filtrava fedeltà); e l’accettazione di un’identità oppressa e soppressa per Spadino.
Tuttavia, nelle vite male assortite dei tre protagonisti, queste fasi durano un attimo, il resto è solo colpevole consapevolezza. È anche questa la definizione più vicina alla corruzione che ha condito e aggrovigliato le loro esistenze: quel momento che ti pone al limite, il terrore empirico di ricadere nell’errore, l’attanagliante impossibilità di sovvertire le logiche del potere. Tutto si riduce a quel “secondo dilatato sulla linea del tempo”, che si moltiplica beffardo nell’attesa di una scelta illusa.
Eppure un secondo resta tale; la corruzione dura un secondo, il resto è solo naturale evoluzione.
Tanto (un eterno secondo) dura il dilemma morale di Cinaglia, che ha deciso con riserva e che agisce senza ancora avere la certezza di risolvere la propria scelta.
La rassegnazione di chi sa che per essere felice è necessario avere una memoria corta.
Un endorsement repentino raccontato, a tratti banalmente e a tratti sottilmente, dal contatto più stretto di Cinaglia col cammino intrapreso: le sue scarpe.
Un riferimento lanciato nella mischia già dal primo capitolo, lasciato a sedimentare e finalmente sviluppato definitivamente nell’ottavo episodio. Le scarpe dell’umile consigliere comunale sono la conseguenza indiretta dei suoi valori, l’orgoglioso consunto che scaturisce dal sacrificio di chi cammina “troppo” con i suoi stessi piedi.
Ma anche quell’orgoglio dura un attimo, e dopo di esso nella mente di Cinaglia c’è posto solo per lo svilimento, in una vita di desideri eternamente assenti.
È così che la frase “ci si affeziona anche alle scarpe nuove, sai? Fatti un giro, magari ti convinci” diventa lo sblocco inconscio della repressione, l’invito a fare un giro sulla giostra della corruzione.
Così come inconscia diventa la proiezione dello stesso Cinaglia in Taccon, nel ribaltamento dei ruoli che vede il primo intento a dimostrare che chiunque finisce per essere corrotto, quasi come a giustificare se stesso.
Nonostante la metamorfosi del tormentato che recita atarassia, qualcosa resta lo stesso (“e invece, siamo ancora qui a parlare delle mie scarpe”) perché il cambiamento dev’essere somatico, consapevole: è col momento in cui Cinaglia cambia le sue scarpe (“sembri un altro”) che coincide il primo sangue versato per causa sua, con la morte di Finucci per mano di Samurai, resa quasi frame-to-frame come tributo alla scena della morte di “Bullett” per mano di Pietro Savastano, in una facile analogia con Gomorra – La Serie.
Entrambi gli episodi sono incentrati sul rapporto con l’icona “istruttiva”, e se nell’evoluzione di Cinaglia è possibile identificare una figura paterna in relazione al pernicioso rapporto con Samurai, allo stesso modo Aureliano, Gabriele e Spadino si ritrovano a mediare tra la ricerca di un riferimento paterno e l’affermazione in maniera autonoma della propria identità.
Perfino il rapporto tra la Contessa e Sara Monaschi è l’iconografia del confidamento materno, prima della rivelazione che apre finalmente la scacchiera, portando all’ennesima conferma che nel gioco criminale il Re (Samurai) è sempre accompagnato da una Regina, al fine di muovere i propri pedoni.
In Suburra – La Serie, l’eredità è vissuta con ingenuo disprezzo (Gabriele sarà il primo a pentirsene), il lascito è riconosciuto come fardello e questo conduce alla suddetta circoscrizione di una zona di comfort ideale, quasi una fuga dissociativa da ciò che si è ereditariamente (e che, quindi, “dovrebbe” essere), che nel caso di Spadino è evidente e rafforzata dal suo orientamento sessuale, che lo induce naturalmente ad allontanarsi dalle direttive di Manfredi.
Per Spadino l’amore non può essere quell’aprioristico e atavico attaccamento agli ideali familiari, l’ha capito grazie ai suoi “gusti”, e da qui il cambio di rotta.
È in situazioni estreme, come questa, che l’amore finisce per diventare qualsiasi cosa, anche uno sgualcito cappello di lana.
L’amore scuote le onde, rema forte e finisce per bagnare ogni lido, se gli si dà tempo.
Ostia non ne è immune: qui Aureliano ha un rapporto viscerale e a tratti possessivo con l’amore, e lo vive, grazie al rapporto con Isabelle (la prostituta della quale si innamorerà), come trasposizione di un mancato amore materno. La sua è una vera e propria ricostruzione contestuale, che sublima nel momento in cui decide di andare a vivere a casa di sua madre (“mi piace che stai qua, che giri per casa” come ricordo sostitutivo), sostituendosi alla figura paterna tanto ripudiata (l’essersi affezionato a una “prostituta”, come dirà sua sorella Livia: “spiccicato a mio padre”).
Il parossismo di Aureliano sta tutto nella realizzazione di una volontà inespressa e solo percepita da parte di un amore assente (quello materno), lo stesso che accorcerà sempre più la distanza tra idea e azione nella mente del futuro Numero 8 e che, per istinto, finirà per vivere nell’esasperazione di un sogno mai realizzato, nell’infinita ripetizione di un “otto” che non smetterà di esistere: il sogno della Las Vegas di Ostia (“Tu eri, io sono” – dal film Suburra, Aureliano rivolgendosi a Samurai).
L’interdipendenza tra personaggi (che spicca come uno dei punti forti del film) è inizialmente assente nella Serie, e questo perché la costruzione del legame diventa qui la portata principale dell’esperienza da spettatore. Una progressione che si contrappone categoricamente al disvelamento di rapporti già ben definiti e intrecci inaspettati, che nel film fanno talvolta da colpo di scena stesso.
Quasi in antitesi simbolica con le intro rivelatrici di puntata, in Suburra – La Serie, la flottiglia statica è tutta tendente al divenire, con la colpa, però, di non puntare anche solo vagamente sull’antefatto: le backstory non godono di profondità e, adagiandosi sulla comoda accezione di “prequel”, la Serie si illude di poter raccontare una storia senza precedenti, risultando a tratti piatta. Mancando di quel “precedente del precedente” che non può non esistere nel passato di una storia, per quanto “giovane” essa sia.
I brusii e le parole non udibili sono una costante, quasi a simboleggiare l’ignoto che copre l’inganno, ciò che non possiamo sapere e che eppure è a un passo da noi.
Malgrado ciò, anche nel dubbio, perfino il crimine gode di un nobile monito, quale è l’amore.
Tanto di cappello a chi ama, in Suburra, perché ci vuole forza a mostrarsi deboli in mezzo ai lupi.
Tanto di cappello a chi, come Spadino, quel cappello non correrà mai il rischio di perderlo lungo la via.
Solo per ricordarsi che c’è sempre qualcosa sopra le nostre teste, a giudicarci.
Sia anche “solo” l’amore.