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Il Muro del Rimpianto – Suburra e quelle premesse tradite

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Ogni narrazione è un percorso, una strada che ci accompagna attraverso luoghi nuovi e inesplorati. Fruirne è come viaggiare: all’immobilità fisica contrapponiamo un moto immaginativo. Non c’è in fondo molta differenza tra chi viaggia e chi si mette di fronte a una storia: ci sarà chi ha più l’attitudine del viandante, chi del pellegrino, chi dell’esploratore, ma poco cambia. Ogni volta che ci troviamo dentro a una narrazione nuova, dunque, che sia letteraria, filmica o seriale, ci stiamo incamminando lungo un sentiero sconosciuto e non sappiamo cosa ci attenda. Seguendo il paragone, l’elemento che più si lega al nostro ruolo di spettatori è il bivio. O meglio, la potenzialità del bivio. In questo concetto risiede il nostro più grande potere di fruitori: noi siamo sì, in parte, passivi nell’esperire quella storia, ma siamo attivi nell‘immaginarne possibili deviazioni. Con le serie questo poi capita spesso: finisce un episodio sul più bello e noi ci chiediamo, almeno fino alla visione di quello successivo, quale possibile strada prenderà la storia, a quale opzione cederà la narrazione. Quando poi scopriamo cosa accade, ecco che una delle strade che ci si erano prospettate nella mente viene come sbarrata da un muro. Talvolta non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma altre non riusciamo a togliercelo dalla testa: eccolo lì a privarci del diritto di intraprendere quella strada, di scoprire quel mondo, di dare quel senso alla storia. É in momenti come questo che si fa largo in noi il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non sarà. Andiamo avanti – viandanti, pellegrini o esploratori – lungo la via di quel racconto, ma nella testa torna spesso un pensiero, un’immagine: il Muro del Rimpianto.

Il genere gangster/crime non è mai stato la mia tazza di tè. Forse perché quando sei un telespettatore italiano è una di quelle pietanze che sembra vogliano ficcarti nello stomaco a tutti i costi. Te lo ritrovi come presenza fissa nel menù del giorno, tra un antipasto a base di dramma familiare e un dolce al gusto poliziesco, ed è come se avessi fatto indigestione ancor prima di impugnare la forchetta. Stando a questa premessa, non mi sarei dovuta nemmeno avvicinare a Suburra, serie che racchiude già nel titolo la sua classificazione. Come si legge su Wikipedia, la Suburra era “un vasto e popoloso quartiere dell’antica Roma situato sulle pendici dei colli Quirinale e Viminale ed esteso fino alle propaggini dell’Esquilino. Poiché la popolazione della parte bassa del quartiere era costituita da sottoproletariato urbano che viveva in condizioni miserabili (…) il termine suburra ha ancora, nel linguaggio comune, il significato generico di luogo malfamato, teatro di malaffare, crimini e immoralità.”

Suburra

Se l’origine del nome non fosse di per sé sufficientemente eloquente, basterebbe guardare alle parentele del prodotto per ottenere un preventivo in merito alla sua natura. Suburra – La serie è ispirata al Suburra cinematografico di Stefano Sollima, pellicola sul malaffare che attinge dall’omonimo romanzo pubblicato nel 2013 da Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini. La derivazione sembrava stabilire una linea di continuità cronologica tra le due trasposizioni, ma una manciata di giorni prima del rilascio della terza e ultima stagione, Gina Gardini ha dichiarato che l’intenzione di fare di Suburra – La Serie un prequel non è mai stato in programma.

“Il film è stato sviluppato in una maniera molto precisa: gli eventi erano in primissimo piano e tutti i personaggi erano al servizio di questo procedere cupo verso l’apocalisse. Qui abbiamo ribaltato tutto, qui si raccontavano i personaggi, il modo in cui portavano avanti e creavano gli eventi.”

L’equivoco sorto è comprensibile e forse avrebbe meritato di essere smentito prima, ma c’è da dire che Suburra – La Serie ha mostrato di possedere un’identità differente da quella del film sin dalle prime battute. E qui veniamo al perché uno show con queste caratteristiche sia stato in grado di instillare delle aspettative (brutalmente disattese) persino nella sottoscritta.

Nel 2017 la mia spacciatrice di titoli di fiducia mi consigliò di vincere gli indugi e metter su il pilot, ché l’elemento mafioso non sarebbe stato ciò su cui la mia attenzione si sarebbe concentrata. Dovetti darle ragione. Quello che mi ha catturata della serie ha avuto poco a che vedere con gli “impicci” in mezzo ai quali i personaggi si immischiano o si ritrovano immischiati. A distanza di anni, posso dire che la prima cosa ad avermi colpita di Suburra è la scena che mostra Aureliano ammazzare un uomo a suon di botte e graziare il cane che si era ritrovato orfano di padrone per via dell’omicidio. Non solo Aureliano risparmia l’animale, ma lo adotta, anche, e lo piange quando Livia rimuove il rischio rappresentato dalla sua presenza in casa Adami sparandogli un colpo (non era bastata Lady a spuntare la casella “traumi seriali legati alla morte di povere bestie innocenti”? A quanto pare no).

Suburra

Quest’episodio, pressoché irrilevante ai fini della trama, fa emergere in Aureliano una sensibilità totalmente estranea al suo corrispettivo cinematografico, quel Numero 8 in cui sembrava destinato a trasformarsi e di cui invece non acquisterà mai la spietatezza. Mi ha colpito (e tanto) Spadino, la dimostrazione che un personaggio omosessuale non deve necessariamente essere relegato a presenza di sfondo o a stereotipo ambulante, che l’orientamento sessuale è un tratto identitario ma non una cifra essenzialistica e che anche un prodotto italiano è in grado di offrire al pubblico una rappresentazione che tenga conto di tutto questo. Magari Gabriele non buca altrettanto lo schermo, ma con le sue aspirazioni delinquenziali nascoste dietro l’apparenza da bravo ragazzo risulta comunque un buon innesto rispetto alla composizione del trio protagonista.

Dietro le sagome del trio in questione si staglia il profilo dei famigerati terreni di Ostia, preda ambita da tutte le compagini in gioco, ma anche la brama di possesso rimanda a una rivalsa personale prim’ancora che all’intrigo di camorra. Attenzione: non dico che in Suburra certe dinamiche siano marginali, ma che fungono da coordinate più che da fulcro rispetto alle vicende. Il cuore pulsante della storia è costituito dai personaggi, dalle relazioni, dai vissuti, da quelle battaglie che seppur combattute con le armi del ricatto e della violenza scaturiscono da spinte visceralmente interiori, legate a doppio filo alle strade del proprio io e a quelle della Capitale.

Insomma, di Suburra mi è piaciuto questo: che è una serie character driver nel panorama di un genere in cui il plot tende a farla da padrone.

Magari a un cultore della categoria non sarà piaciuta per lo stesso identico motivo. Penso che sarebbe una posizione assolutamente lecita, ma penso anche che in quell’impostazione Suburra avesse la sua cifra distintiva e che vedergliela perdere sia stato ciò che mi ha spinta a inciderne il titolo sul muro del rimpianto, prim’ancora della frettolosità con cui le vicende della serie sono state portate a termine. In realtà non ritengo che i due fattori siano scissi l’uno dall’altro, ma che siano legati da un rapporto di causa/effetto. Sono convinta che la rovina di Suburra sia dovuta all’inversione di quella gerarchia che aveva posto i personaggi al vertice della piramide eretta dalla narrazione e che ha poi finito per subordinarli ai fatti.

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A un certo punto quei personaggi protagonisti della scena, che dettavano l’agenda all’intreccio, sono stati come declassati, resi strumenti al servizio di risvolti che non giungevano come esiti naturali delle loro azioni, ma come forzature a cui erano costretti a piegarsi. Malgrado la terza stagione abbia rappresentato il fatidico salto dello squalo, la conversione della scrittura a una logica meramente utilitaristica è avvenuta già in precedenza, com’è ben testimoniato dall’uccisione di Livia da parte di Samurai. Una morte imbastita al solo scopo di gettare il presupposto su cui la seconda stagione avrebbe poggiato: l’immediata ricomposizione del trio, sfaldatosi nel finale della prima (e tanti cari saluti al processo graduale che avrebbe dovuto regolarne il riavvicinamento). Queste modalità vi ricordano per caso quelle di un’altra morte illustre sopraggiunta successivamente? Se siete nel folto gruppo dei telespettatori rimasti delusi dalla terza stagione, è probabile che sia così.

suburra spin-off

Persino io che non mi sono approcciata a Suburra per i giochi di potere mi aspettavo che il gran finale convergesse sullo scontro generazionale tra il tandem Spadino/Aureliano e Samurai. Prendersi Roma (per i soldi e per il potere, sì, ma anche e soprattutto per diventare grandi, per superare il retaggio delle proprie radici e metterne finalmente di nuove nelle profondità dei terreni conquistati) ha sempre significato strapparla dalle grinfie di colui che ne muoveva nascostamente i fili; ma quella che sarebbe dovuta essere una resa dei conti memorabile è stata degradata a mero agguato di quartiere. La rapidità dell’esecuzione con cui Samurai viene estromesso dai giochi lascia sbalorditi. Per celebrare un tanto atteso ritorno finalmente ufficializzato, potremmo dire che il tutto avviene “così, de botto, senza senso“, oltre che senza rendere minimamente giustizia al personaggio di Samurai. Nel decalogo della buona narrativa, ridurre l’antagonista designato a ingenuotto che si lascia bellamente intortare risulta essere la primissima cosa da non fare per non perdere di credibilità agli occhi del pubblico. Ma anche qui c’era una premessa da gettare: Spadino e Aureliano dovevano entrare nella gestione diretta degli affari della Capitale affinché Manfredi si sentisse minacciato dalla loro alleanza e cercasse di spezzarla con ogni mezzo.

Suburra

Persino l’atto finale è figlio di quella logica che sacrifica gli sviluppi ponderati sull’altare del “deve succedere perché sì”. Ed è imperdonabile, perché la scelta va a depotenziare un impatto emotivo che sarebbe potuto essere devastante nel senso più positivo del termine. Con molti degli uomini di Manfredi messi k.o. e un riparo dietro cui farlo temporeggiare, la morte di Aureliano risulta arrangiata per puro amor di tragedia. Ma come faccio a godermi il dramma se sono impegnata a chiedermi ma sei scemo? Perché cacchio lo hai fatto? E dire che sulla carta il sacrificio era totalmente in linea con quello spirito che ha reso Suburra un prodotto sui generis. Pensateci: in una serie solo apparentemente incentrata sul crimine, il protagonista decide di sovvertirne apertamente le regole, lasciandosi guidare dal cuore invece che dall’interesse proprio nel momento in cui avrebbe potuto agguantare il suo trionfo personale.

Eppure di cuore ne traspare veramente poco da quella conclusione spiccia e raffazzonata, che riesce a risultare sbagliata pur essendo concettualmente giusta.

Di solito sono gli spettatori che hanno fretta di arrivare alla fine per conoscere il destino dei loro beniamini, ma a ‘sto giro sono stati gli sceneggiatori ad aver messo il turbo e la qualità ne ha fatto le spese. Gli avvenimenti che si sono verificati nel mezzo non sono stati scanditi granché meglio: lo scontro fratricida tra Spadino e Manfredi, il tragico incidente provocato da Aureliano, il lutto di Angelica; tutto scorre via senza avere il tempo di sedimentare, come se si trattasse di pagine sfogliate troppo velocemente perché si possano metterne a fuoco le immagini. E vabbè. Doveva succedere perché sì. È il motto che ha guidato il progredire della serie da un certo momento in poi, e purtroppo per noi fan, è anche un principio da cui è impossibile far derivare una buona storia.

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