“Tutto quello che ho fatto nella mia vita, l’ho fatto per i miei figli”.
Quante volte abbiamo sentito Logan Roy di quel capolavoro di Succession pronunciare queste parole in pubblico? E quante volte, con le dovute varianti, le abbiamo sentite pronunciare a Tony Soprano ne I Soprano o a Walter White in Breaking Bad? Questo è il ritratto di un uomo sul viale del tramonto della sua vita, pronto a tirare le fila della sua straordinaria carriera; il ritratto di un padre padrone narcisista, di un imperatore. Il ritratto di un vecchio combattente che si rifiuta di morire.
La storia della famiglia Roy di Succession sembra uguale a quella di tante altre famiglie multimilionarie che combattono per il potere. Una sorta di Game of Thrones iperrealistico, un dramma Shakespeariano che si consuma tragicamente sul palco della vita da 400 anni sotto forme diverse ma sempre profondamente, perpetuamente, dannatamente uguale a se stesso. E in parte lo è. Lo è perché dopotutto la drammatica lotta interiore contro la propria stessa natura e contro i traumi derivati dall’esistenza è, purtroppo, sempre esistita e parla a quella parte di noi che, in segreto, combatte e si dibatte nel suo piccolo angolo di mondo.
Succession, prima ancora che un dramma familiare sull’arrivismo e la lotta per il potere, è la storia di un uomo molto egocentrico e molto ferito, che ha costruito la sua vita di successo sul conflitto e non intende retrocedere di un solo passo al nuovo, che per lui significa la vecchiaia e la morte.
La chiave per capire Logan Roy sta nella sua concezione del potere e di come questa si sia delineata lungo una vita spietata, fatta di poco amore e molti compromessi. Ancora molto giovane, Logan va a vivere in Canada dagli zii e ovunque sfuggono briciole di pane su quanto la sua condizione sia stata miserabile: cresciuto povero, Logan Roy presenta tutte le vivide tracce dell’abuso. Lo vediamo sulle vivide cicatrici della schiena, lo capiamo dalle remissive parole nei confronti dello zio, lo intuiamo dal rapporto rispettoso ma conflittuale con il fratello. Se tutta la sua infanzia è stata lotta continua per la sopravvivenza, non giunge come una sorpresa la sua profonda e magari inconscia incapacità a lasciare andare ciò che è riuscito a costruire.
Con questa chiave di lettura bene in mente, non è un caso notare come Logan Roy indossi come una medaglia al valore (le stesse che mette in bella mostra durante una cena di famiglia) la capacità di riuscire a tenere il suo impero e i suoi figli sotto controllo, nonostante sia più vecchio e più malato di loro. Il suo ego viene così costantemente validato e alimentato dall’esterno, dal suo entourage, dal mondo intero, dai suoi stessi figli che vivono nei suoi confronti l’eterno dilemma di chi è vittima e carnefice allo stesso tempo. E questo steso dualismo si riscontra nello stesso Logan che se da una parte dice che “ha fatto sempre tutto per i figli”, dall’altro prova per loro un profondo risentimento mai affrontato, che affonda le sue radici più profonde nel suo passato.
“Io sono nato fortunato. Sono una persona fortunata, lo so. E tu sei invidioso, vero? Sei così invidioso di quello che hai dato ai tuoi figli, che non ce la fai”
Dirà Kendall nella prima stagione e a noi ci vuole un attimo, il breve spazio di un respiro e di uno scatto di Logan, per capire che ha ragione. Connor, Kendall, Shiv e Roman sono nati fortunati, nella bambagia che Logan Roy ha costruito per loro, proprio come gli piace sempre dire in pubblico. Eppure il risentimento per la loro “fortuna” è sempre lì, ribolle sotto la superficie senza quasi che ne sia consapevole. Anche se dice che lo ha fatto per loro, Logan non riesce davvero ad accettare che i suoi viziati figli possano così facilmente mettere le mani sul suo impero, costruito a suon di pelle martoriata sulla schiena. Quell’enorme sofferenza che ha imbottigliato per anni e ha trasformato, con la forza del suo carattere di acciaio, in resilienza e in lezione di vita, deve sfogare da quale parte.
Così Logan costruisce il suo personale parco giochi e ci mette dentro tutto: l’illusione auto-imposta di voler insegnare qualcosa ai figli, il ruolo di padre amorevole, la paura della morte, la brama di potere, il dolore. Ci mette tutto e comincia a giocare. Logan Roy dirà spesso, durante tutto l’arco delle tre stagioni, che tutto non è altro che un gioco che bisogna giocare ed ecco qui che echeggia ancora una volta il gioco del trono di Game of Thrones, una partita infinita per il posto di re, che forse nessuno vuole davvero ma tutti si sentono in dovere di giocare. Questo è soprattutto visibile con Kendall, con il quale il dualismo è costante lungo tutta la serie. Nella prima stagione Logan disprezza Kendall per aver osato prendere il suo posto, eppure a fine terza stagione sorride quando Kendall si dimostra abbastanza simile a lui da tradirlo. Logan lo considera un debole, ma alo stesso tempo lo punisce ogni qual volta che Kendall diventa ribelle, alza la voce, si impone contro di lui.
Anche con Shiv e Roman porta avanti gli stessi giochi mentali, ancora una volta agendo su due fronti opposti che ne rivelano il dualismo di fondo. Logan ammira Shiv per la sua voglia di indipendenza, ma allo stesso tempo la dismette come una bambina perché è la sua figlia più giovane. Le crea un falso senso di sicurezza facendole credere di avere altre opzioni, ma poi usa la sua presunta “slealtà” come scusa per non darle il trono. Con Roman la disparità è ancora più marcata, essendo lui il figlio più debole nel prendere posizione contro il padre.
“Vi ha costruito un parco giochi e voi avete creduto fosse il mondo intero”
Dirà Marcia Roy a Kendall e questa frase riassume molto efficacemente quello che è la realtà di Logan: attraverso false promesse, bugie, carote-e-bastone, batoste e poi abbracci, continue riaffermazioni e continui scontri, ha creato per i suoi figli una realtà distorta che continua a distruggere e ricostruire costantemente, nel tentativo di continuare a permanere nel suo ruolo sia nella società che nella sua famiglia, alimentando il suo ego. E questo ancora una volta fa il giro e si riallaccia alla sua infanzia, perché il dolore è tutto ciò che conosce come forma d’amore ed è tutto ciò che conosce come forma di potere. Questi tre elementi sono saldamente ancorati tra loro, al punto che distinguerli diventa talvolta impossibile e i confini diventano sfumati. Allo stesso modo come lo sono i confini tra famiglia, lavoro, successo, potere, affetto.
“Logan non vuole morire” assume quindi una nuova e complessa connotazione, perché non si parla solo di morte biologica o morte simbolica nei confronti del suo impero. Si parla della sua ferma decisione di non lasciarsi andare al passato, non permettere che il dolore che ha provato vada sprecato e di sicuro non per mano di qualcuno che non ha sofferto come lui (quindi non lo merita). Sotto questo punto di vista diventa terribilmente giustificativo tutto quello che lui sta facendo provare loro, un nuovo dualismo che – come dicevamo – da una parte vede ‘il padre-insegnante e dall’altra il padre-invidioso. E quando, alla fine della terza stagione, decide di vendere la sua azienda è l’epitome massimo di questo sentimento che arriva all’autolesionismo.
La verità, però, è che nel suo sentimento egoriferito e narcisista, nessuno merita quel trono quanto lui e quindi nessun dolore inflitto ai figli sarà mai abbastanza per colmare quella voragine che si è aperta a partire dalla sua infanzia. Nessuno dei suoi figli sarà mai degno ai suoi occhi, non quanto lo è lui stesso, non importante attraverso quanti inferni cammineranno per ottenere quell’agognato amore paterno che è anche potere, orgoglio, successo, ricchezza. E questo vuol dire, in altre, parole che Logan Roy non morirà mai. E allora lunga vita al Re.