Roman Roy è un esibizionista. Non solo inteso nell’accezione di eccentrico, stravagante, teatrale, sopra le righe: Roman Roy è un esibizionista di sentimenti. Il minore della famiglia Roy infatti non si astiene mai dal dire ciò che pensa, palesare ciò che sente, sia che si tratti di insultare un dipendente o di esprimere ammirazione per suo padre, di fare battute fuori luogo o di umiliare il primo malcapitato di turno attraverso costanti allusioni sessuali; tutto ciò che passa per la testa di Roman è immediatamente esternato nel modo più plateale possibile, facendo della ricerca spasmodica di attenzioni la sua principale caratteristica. Ed è impossibile non notarlo, Roman Roy, seppur per le motivazioni sbagliate. Per il protagonista di Succession infatti non conta solo che le persone lo notino: vuole che siano disgustate da lui, poiché le due cose – attenzione e disgusto – sono strettamente collegate. L’assenza della figura materna (che avrebbe preferito avere dei cani piuttosto che i figli che le sono capitati) e gli abusi di quella paterna (che sostiene invece che i giovani Roy non siano persone serie), hanno delineato il masochismo di Roman Roy, catalizzatore di un’emotività distorta ed ereditaria tramandata fino ai fratelli maggiori, rafforzando in lui l’idea che l’amore sia unicamente associato al dolore e all’umiliazione e che, di conseguenza, non meriti altro che essere umiliato. Eppure Roman Roy riesce in qualche modo a distaccarsi da questo circolo vizioso (e viziato) di abusi psicologici nonostante ne rappresenti la più fedele personificazione, come dimostra la sua solitudine e la sua incapacità di instaurare rapporti sentimentali.
Nonostante tutto, Roman Roy ha sempre inseguito l’amore, pur non avendolo mai conosciuto.
L’assenza di amore materno ha reso infatti impossibile per lui conoscere l’amore sentimentale e, ancor di più, l’amore carnale; al linguaggio volgare di Roman corrisponde un’inaspettata astinenza (o impraticabilità) dal sesso, scisso a sua volta dal romanticismo. Come d’altronde affermava Oscar Wilde: tutto nel mondo è sesso, tranne il sesso. Il sesso è potere. Non a caso Logan Roy si affianca sempre a donne più giovani che possano rimarcare la sua dominante posizione di potere al contrario di suo figlio, che è attratto da donne decisamente più grandi di lui, nelle quali ricerca una mancata figura materna e quella sottomissione che gli è tanto familiare. Il linguaggio sboccato in Succession è sempre legato al sesso che è legato unicamente al potere e mai all’amore; la famiglia Roy è infatti parte integrante di un mondo definito dagli anglosassoni filthy rich, schifosamente ricco, tanto da essere (moralmente e verbalmente) sporco, sbagliato, disgustoso, ripugnante. Roman finisce così per bramare quella repulsione, segno inconfondibile di forza e di potere e, nel suo masochismo, anche di amore.
Il linguaggio scurrile è l’arma di difesa più che di attacco attraverso cui Roman cerca di restare a galla in quel mondo eticamente ribaltato di Succession, in cui il sentimento diventa perversione, l’affetto sadismo, l’altruismo debolezza. Ma per un esibizionista di sentimenti nessuna sensazione è da reprimere, in particolar modo la vulnerabilità, che Roman più di chiunque altro esterna senza difese quando sceglie di dichiarare apertamente il suo affetto a un padre pronto a deriderlo, o di difendere le idee del number one boy Kendall Roy anche a discapito di se stesso perché, nonostante tutto, Roman Roy resta un outsider di quella classe privilegiata che egli stesso rappresenta. Succession stessa è dopo tutto un coerente insieme di contraddizioni, in cui la lotta per la successione (aziendale) va di pari passo alla fuga dall’ereditarietà (morale familiare); i protagonisti bramano l’approvazione dell’uomo che temono di diventare, in quel mondo distorto in cui il disprezzo è esplicito e l’amore è sussurrato a un orecchio sordo dall’altro capo del telefono solo quando ormai è troppo tardi per essere ascoltato, in quell’universo dicotomico in cui sei il killer o la vittima, il vincente o il perdente, Kendall Roy o Roman Roy.
Chi è il migliore in un mondo capovolto?
La contrapposizione tra i due fratelli è sempre stata centrale nel corso della narrazione; il prescelto per stato di diritto contro l’ultimo nella successione al trono, il tormentato personaggio drammatico shakespeariano in opposizione al comico nichilista incapace di prendere qualsiasi cosa sul serio, il killer contro la vittima. E poi c’è Shiv. Shiv ingloba nello stesso momento tutti gli ossimori, la figura materna e quella paterna, la forza e la debolezza, l’amore e il tradimento. Questa ambiguità risulta perfino vincente nell’umanità distorta di Succession, ma non in quella di Roman Roy, il cui fine ultimo non è mai stato ottenere l’azienda di famiglia o il potere del padre, ma l’amore sincero e la vicinanza dei fratelli.
Nel mondo capovolto di Succession, Roman Roy è inaspettatamente il migliore in quanto è l’unico a non esserne davvero parte.
Roman è umano in un contesto disumano e disumanizzante che vede prevalere il potere sui principi morali, i soldi sulla famiglia, il tradimento sulla fiducia. Roman è umano poiché riesce a farsi da parte, a piangere in pubblico, a difendere l’onore di chi l’ha deriso, a mostrarsi vulnerabile laddove non è concessa la vulnerabilità. Roman è umano nel timido sorriso amaro della sequenza finale che chiude la migliore serie televisiva dell’ultimo decennio, quel sorriso che risulta essere esplosivo seppur appena accennato, travolgente nella sua non-presenza così come lo è Roman stesso in quel contesto che non gli appartiene e non gli è mai appartenuto. Nel mondo degli ossimori rappresentato da Succession, la sconfitta non può che essere una vittoria poiché, nell’esclusione dalla succession(e), si cela tutta la libertà del mondo.