Se fosse un fantasy, somiglierebbe a Game of Thrones, come hanno sottolineato in tanti. Se fosse una soap-opera, sarebbe una Beautiful affrescata da Gustave Courbet. Se fosse un’opera teatrale, porterebbe la firma di William Shakespeare. Ma se fosse una persona, sarebbe lo zio alcolizzato che dà scandalo ai pranzi di Natale vomitando sull’arrosto incrollabili certezze. Per scrittura, recitazione, fotografia, regia e colonna sonora, Succession, la dark comedy-drama di HBO, è un’opera di genio, acuta e imbevuta di cinismo. Un unicum che attinge da suggestioni disparate per restituire al pubblico una vicenda inclassificabile, spigolosa e strafottente. Quindi non è un’esagerazione definirla un capolavoro della serialità . Un termine che difficilmente scomodiamo dal nostro “cassetto delle parole da usare con estrema parsimonia“. Quelle parole che, qualora pronunciate, farebbero scattare in redazione la sirena rossa del castigo semantico. Eppure in Italia, inspiegabilmente, resta ancora un prodotto di nicchia. Apparentemente la fittizia famiglia Roy, proprietaria del conglomerato mediatico Waystar RoyCo, non fa gola tanto quanto i Lannister. Ma in una storia dove trova posto un personaggio come Roman Roy, i draghi servono a ben poco. Non occorrono particolari effetti speciali quando si possiede una sceneggiatura che ha le gambe per correre da sola. Arrivata sul piccolo schermo nel 2018, la serie di tre stagioni è ideata da Jesse Armstrong (Peep Show, Fresh Meat), è prodotta da Will Ferrell (Anchorman) e Adam McKay (Don’t Look Up, Anchorman) e sta per tornare a sconvolgerci con un nuovissimo quarto capitolo.
Una diffidenza comprensibile
Il dramma satirico è stato acclamato a gran voce all’unisono, sia dal pubblico che dalla critica. Purtroppo però, sulla carta, non riesce ancora a sedurre il grande pubblico italiano, come ha saputo fare Game of Thrones. Perché Succession è fatta così: è una viscida serpe. Si nasconde, ha bisogno di tempo per essere metabolizzata, ma quando ci prende, ci travolge. È difficile voler bene ai protagonisti, i Roy (spoiler alert: non accadrà mai!). Tuttavia più ci addentriamo nella storia, più ci sentiamo parte integrante di quel reticolato tossico di cattiveria, ambizione e false promesse. E questo è un miracolo che solo una penna scaltra e raffinata può compiere. Eppure, sulla carta, Succession non ha elementi capaci di attrarre il pubblico più diffidente, a partire dalla trama.
Una trama sciapa, apparentemente già vista? Sì, ma se lo può permettere
Se Succession avesse solamente un ottimo soggetto e una buona sceneggiatura, sarebbe una serie tv come ce ne sono tante. Rientrerebbe probabilmente in quel filone a metà tra i legal e i family drama; un mix and match tra Dynasty e Suits. La trama, basta leggerne una qualsiasi (ad esempio quella di Wikipedia) è una premessa sterile, poco allettane:
La serie segue la famiglia Roy (composta da Logan, la moglie Marcia e i quattro figli che lui ha avuto da precedenti matrimoni) che controlla la Waystar, uno dei più grandi conglomerati di media e intrattenimento del mondo.
Dunque, gioie e dolori di una dinastia di multimiliardari, ispirata a quella del magnate dei media Rupert Murdoch, che venderebbe la propria madre al miglior offerente. Succession si presenta come il dramma di una famiglia potentissima minacciata dai giochi di potere sia interni che esterni, tra gli squali del Financial District di Manhattan. Delle premesse che, poste in questa luce, farebbero gola ai soli addetti ai lavori. E forse è proprio questo il primo elemento di diffidenza. La vicenda, apparentemente, è insipida. Sembra solo un altro mattone familiare con intrighi patinati e faide risolvibili. Le puntate, poi, hanno una durata media di un’ora ciascuna e sono ricolme di informazioni tecniche che hanno poco appeal sul grande pubblico. Ma Succession è molto di più di un ottimo soggetto e una buona sceneggiatura. È una creatura irrequieta, indefinibile ed elegante, che vede il mondo per quello che è realmente. Per questo può permettersi il lusso di fare a meno di una trama originale.
Perennemente in bilico tra dramma e commedia, in un equilibrio estenuante e imprevedibile
La tensione è al massimo in ogni inquadratura. Il ritmo è sostenuto, incalzante e non rassicura mai. Anche noi finiremo per esserne risucchiati, subendo passivamente il potere che esercita il patriarca, Logan Roy, sui suoi quattro figli. Finiremo così a bramare un suo cenno di assenso, uno sguardo complice, un gesto di approvazione. Un dettaglio superfluo, in Succession, segna la differenza tra mediocrità e genialità . Le complicate dinamiche di potere tra padre e figli, le macchinazioni finanziarie, politiche e familiari si fondono tra loro restituendo una narrazione che dà assuefazione.
La trama quindi è irrilevante. La vera protagonista è la guerra generazionale dove il vecchio non vuole lasciare il posto al nuovo. E dove il nuovo non è così scaltro da conquistarselo senza chiedere aiuto al proprio paparino. Il realismo non lascia speranza ed è esasperato da soluzioni registiche che ricercano il voyeurismo, pur sfruttando uno stile teatrale e solenne. Le situazioni che sceglie di mostrare sono intime, grottesche e scomode. I personaggi sono spregevoli, infidi e non vediamo l’ora di vederli umiliati, vittime dei loro stessi passi falsi. La dramedy non fa proprio nulla per farceli amare. Anzi ci spinge a detestarli stagione dopo stagione. Non c’è nessuno per cui tifare: è questo il fascino irresistibile di Succession.
Una riflessione acida, grondante di dark humor, sugli effetti che il potere esercita sull’essere umano
Sin dalla prima puntata veniamo scaraventati nella vita privata dei Roy: una famiglia reale con tanto di re, regine, cortigiani, valletti, lacchè e vittime sacrificali. Ma il dramma dei Roy è solo un pretesto per intavolare una riflessione contemporanea, realistica e scrupolosa sui meccanismi della società occidentale. Un mondo dove non c’è posto per ideali e buone intenzioni; dominato dalle grandi corporazioni, dai media, dalla cieca ambizione e dal denaro. Ecco quindi che l’attualità , che vuole essere compresa in ogni sua implicazione, si fonde con la finzione. Si parla di Harvey Weinstein senza parlare mai di Harvey Weinstein. Troviamo i Murdoch, gli scandali e la Fox, pur non facendone mai direttamente riferimento. Si ragiona sull’infodemia e sul potere dei nuovi media, ma accennando solo svogliatamente a nomi reali, come a Zuckerberg. Perché Succession non ha bisogno di nominare fatti e persone esistenti. Il realismo, insieme alla realpolitik, pervade ogni sua fibra, ma viene garantito dall’elemento di forza della serie: i personaggi.
La costruzione e lo sviluppo dei personaggi
La nota distintiva della serie è senza dubbio la costruzione dei personaggi e il modo in cui vengono sviluppati. Il patriarca, il “Re Lear” interpretato da Brian Cox, è Logan Roy, un uomo di potere che si nutre di potere: il suo elisir di lunga vita. I suoi quattro figli – allo stesso tempo vittime e villain – sono interpretati da Kieran Culkin (sì, il fratellino di “quello di Mamma, ho perso l’aereo”) cioè il disastrato e inquietante Romulus “Roman” Roy; Alan Ruck è l’annoiato Connor; Sarah Snook è l’ambiziosa e indecifrabile Siobhan, detta Shiv, e infine Jeremy Strong è Kendall, detto Ken, un personaggio tutto da assaporare. Un cast che per l’interpretazione credibile e vibrante ha fatto razzia di premi e riconoscimenti prestigiosissimi.
A contornare questo ensemble tanto perfetto quanto disfunzionale troviamo i pilastri della RoyCo: J. Smith-Cameron nelle vesti di Gerri Kellman e Peter Friedman in quelle di Frank Vernon. Matthew Macfadyen interpreta Tom Wambsgans, il partner di Shiv. Un personaggio per il quale servirebbe un saggio solo per descriverne complessità e idiozia. Esattamente come quello di Nicholas Braun, il goffo e arrivista cugino Greg. Tom e Greg, insomma: l’unica vera coppia dello show. Il cerchio magico si scontra continuamente con altri personaggi altrettanto accurati, tra cui l’esilarante cameo di Adrien Brody. Ognuno di loro si scolla dallo schermo per venire a sedersi nel nostro salotto, per guardarci disgustato dall’alto del suo piedistallo dorato. Anche noi plebaglia entriamo a far parte dei Roy. Magari come cugini di terzo grado, inetti e arrivisti che, come Greg, non aspettano altro che accaparrarsi una mollichina di pane. Le ambientazioni sono volutamente asfissianti e claustrofobiche. I primi piani sono esasperati, traballanti, pronti a rubare un sopracciglio aggrottato, un sorriso sardonico o un’altra qualsiasi impercettibile crepa emotiva.
Dialoghi intelligenti, personaggi stupidi che ridono dei loro stessi meme
La corsa alla successione, cioè al trono del vecchio Logan, è un capriccio pirandelliano di tre fratelli adulti (il quarto ha ambizioni ancora più rarefatte!) che non sono altro che tre bambini viziati, ridicoli e boriosi, in lotta per l’amore paterno. Ridiamo della loro idiozia, ma allo stesso tempo tremiamo sconcertati, perché i loro screzi non sono dissimili da quelli che leggiamo sui quotidiani. La satira è piena di implicazioni sociologiche ed esistenziali che emergono silenziose dai dialoghi, senza mai scadere in un intellettualismo di facciata e saccente. Attraverso il comportamento dei Roy vediamo con i nostri occhi i limiti del capitalismo, del maschilismo e della finta meritocrazia americana. Succession diventa così un dramma shakespeariano dai toni perversi e tragicomici, dove la brama di potere si fonde alle debolezze umane generando dei mostri.
Una dramedy sorretta interamente da personaggi monumentali e dialoghi cesellati
Se proprio volessimo trovarne uno, l’unico effetto speciale – oltre all’interpretazione magistrale del cast – sarebbe la colonna sonora, a cura del compositore Nicholas Britell (Moonlight, Don’t Look Up). Il tema musicale dell’intera serie altro non è che la sigla modulata a velocità e tonalità diverse. Un elemento che riunisce i diversi fili narrativi, aggiungendo gravità a ogni episodio. Un tema grave, dunque, ricco di suspense che entra in contrasto con il carattere satirico della narrazione. Il suono severo del classico pianoforte e dei violini è stato contaminato da un ritmo pop e da influenze hip-hop preponderanti. Ancora una volta, il vecchio e il nuovo entrano in conflitto e si scontrano facendosi a pezzi. L’effetto straniante che ne deriva corre tra solennità e stupidità e contribuisce a rendere Succession una serie, allo stesso tempo, classica e grottesca, demenziale e drammatica.
La famiglia Roy riflette tutto il marcio della nostra società . Seguiamo i dissidi di una famiglia imperiale avvelenata dall’egocentrismo che pur avendo già tutto, non ne ha mai abbastanza. La trama squisitamente orizzontale di ogni stagione ci trascina un episodio dietro l’altro fino al finale che (almeno finora) assume ogni volta le sembianze di un gran galà dove la stupidità umana da sfoggio di sé.
Perché la cupidigia e il potere ci rendono stupidi. Forse è questa la lezione di Succession che non sembra essere una serie tv, tantomeno un film. Si presenta piuttosto come una pièce teatrale che non ha bisogno di grandi effetti, se non di una penna geniale. Un documentario disilluso sul potere e sulle conseguenze devastanti che questo esercita sul genere umano. Una visione insopportabile, ma veritiera. Fastidiosa, ma appagante, che riusciamo a tollerare solamente grazie al dark humor e a una scrittura impeccabile.