“You’re not a killer, you have to be a killer“. Parole che riecheggiano pesanti in una stanza vuota: tornano e ritornano, riavvolgendo la storia di Kendall, percorrendo in un viaggio a ritroso tutte le volte che in Succession il secondogenito di casa Roy è caduto sotto i colpi delle sue insicurezze. Fin dal primo episodio, dal principio, quando la sua remissività lo ha costretto a continui rilanci e a un atteggiamento di sottomissione per accaparrarsi la Vaulter, startup di Lawrence Yee.
È lì, già allora, che Logan capisce, che si rende conto una volta di più, una volta di troppo della cronica insicurezza di suo figlio, di quella debolezza strutturale che un vero leader non può avere. “You’re not a killer“, ammetterà soltanto nella 2×10. Ma quella convinzione Logan se la porta dietro da tempo, da quando ha scelto di rimandare la sua abdicazione di fronte alla consapevolezza che un vero erede, un degno erede non c’è. O non c’è ancora.
Kendall in Succession vive tutta la fragilità di un uomo che vorrebbe essere “killer”, che vorrebbe essere lo spietato approfittatore freddo e senza scrupoli che è suo padre ma che inevitabilmente non riesce a essere. In lui non c’è quella freddezza, quello sguardo glaciale con cui Logan fredda i suoi nemici e chiunque gli sia attorno. Non c’è morale, non c’è cedimento, non c’è dubbio nel killer. Solo la lucida consapevolezza di tirare il grilletto e fare fuoco. Quando serve, ogni volta che è necessario.
Ken arma il cane della pistola ma poi su quel grilletto ci si sofferma, dubita, vacilla.
E nella giungla degli affari se non hai la prontezza di sparare finirà che qualcuno spari prima di te. E allora sarà troppo tardi. È tutta qui la forza e debolezza di Kendall Roy, nello scrupolo, ora morale, ora esistenziale che alimenta dentro di sé e che lo rende incomparabilmente lontano da suo padre.
Tutti i figli di casa Roy nella disfunzionalità dell’ambiente in cui sono cresciuti vivono il peso della propria incompletezza. Dell’incapacità di essere davvero granitici nella freddezza dei loro progetti. La gabbia dorata in cui sono cresciuti, in cui il loro ego si è alimentato, li ha resi deboli, insicuri, incompleti. Non hanno alle spalle la dura lotta per arrivare, la voglia di farsi largo a tutti i costi che è propria di Logan. Non hanno la forza di una scalata che parta da zero e orgogliosamente si innalzi fino alle vette del potere.
Non hanno quella fame perché non hanno mai avuto fame. Sono cresciuti negli agi, nell’idea che tutto sia già dovuto loro, che la ricchezza e il potere siano parte integrante delle loro vite. E naturalmente aspirano a quel potere, bramano un potere sempre maggiore perché è ciò che è sempre contato più di tutto. Ma non hanno la rabbia, l’ostinazione, la freddezza che li renda disposti a tutto e che possiede solo chi ha vissuto la mancanza di quel potere, chi ha desiderato e lottato ardentemente per quel potere.
La loro è una guerra fratricida in cui nessuno dei tre, né Kendall, né Siobhan, né Roman riesce mai a premere definitivamente il grilletto.
Ma se Shiv e Roman hanno pochi proiettili da sparare rispetto a Ken, quest’ultimo più dei primi manca di imprimere il colpo di grazia. Troppo umano, troppo fragile per essere davvero un killer. È troppo umano nel nutrire scrupoli morali dopo la morte del cameriere. È troppo umano nel pensare al bene dei fratelli, dei figli, della famiglia. Troppo umano nel volere una compagnia che si innesti su determinati valori etici.
Ma attenzione: Kendall Roy non è per questo più buono degli altri. La sua è spesso e volentieri una pia illusione di bontà, un ammantarsi di slogan progressisti che si traducono in ipocrisia e stridono con la realtà. Non a caso risulta ridicolo, fuori luogo, imbarazzante, “cringe” nell’interiorizzare concetti della sinistra woke e nel riproporli sui social o nelle interviste. E la sua incoerenza viene presto e facilmente messa in evidenza. Eppure non è neanche il camaleontico e amorale patriarca della Waystar Royco che non si preoccupa minimamente delle vite umane coinvolte e che derubrica senza troppi problemi la morte del cameriere come una “NRPI“, “No real person is involved“, dove “real”, sta naturalmente per persona che conta, rilevante, significativa.
È questa la spietatezza senza rimorsi che anima Logan in Succession ma che non può chetare i dolori del giovane Kendall. Logan ha compiuto una scelta, ha imposto una direzione alla sua vita e ha alimentato quella scelta con decisioni che lo hanno portato sempre più a rinunciare a ogni scrupolo morale. Una scelta diametralmente opposta a quella del fratello ma appunto una sua scelta. Ha avuto l’amore, ha vissuto l’indigenza e ha scelto coscientemente il potere, rinnovando questa scelta passo dopo passo, compromesso dopo compromesso, crimine dopo crimine, fino ad arrivare alla finale atarassia morale di chi ha talmente tante colpe sulle sue spalle che per sostenerle tutte può solo cambiarle di nome e non vederle più come tali.
Kendall in Succession non ha questa forza.
Non ha la capacità di abbracciare il potere in tutta la sua amoralità. Dentro di sé, come ogni figlio di Logan, sente il vuoto dei sentimenti. La mancanza sua, di Shiv e Roman non è una povertà materiale ma affettiva. Hanno una madre che ha ammesso candidamente di non aver mai voluto né saputo essere una madre e un padre assente e tutto concentrato sulle sue logiche di potere. La loro vera mancanza è quella affettiva. E per tutti i fratelli questo vuoto emotivo si declina in modo diverso e originale: per Shiv nella ricerca disperata di un’amore reale per Tom, costantemente però schiacciato dai desideri di potere. Per Roman in un affetto malato e disturbato, nel masochismo voluttuoso di Roman Roy. Infine per Kendall nella cronica insicurezza.
Questa insicurezza è la sua forma di umanità, di emotività, di sentimento. Malata, certo, distorta, come tutte le espressioni affettive dei fratelli Roy. Un’insicurezza che si traduce in un male di vivere pronto a condurlo di volta in volta nel vortice distruttivo di dipendenze e di evasioni dalla realtà. Kendall arriva a sciogliersi, a scomporsi in una ameba apatica e robotica nel corso della seconda stagione, quando si rimette interamente al padre, quando prova a esserne un’emanazione senza vita. È il suo modo per diventare Logan, per allontanare da sé lo scrupolo, il dubbio, la fragilità. Obbedisce agli ordini paterni, pende dal capezzolo di Roy succhiandone freddezza, fermezza e durezza. Ma è soltanto un automa, un replicante che ha scelto di rinnegare se stesso per non soffrire più.
E come “No real person”, strumento nelle mani di Logan, finisce per risultare sacrificabile. Solo allora torna in sé, prova a essere, dal finale della seconda stagione di Succession, il killer che non è mai stato e che forse, però, non sarà mai. Perché dietro Kendall c’è l’affetto negato, l’infanzia tradita, la disfunzionalità di sentimenti di cui è stato privato. Dietro Ken c’è la fragilità insuperabile, la cronica insicurezza che soffoca le sue immense potenzialità: le capacità di leader, di imbonitore (come conferma questa meraviglioso stagione finale di Succession), di esperto formato sul campo, mandato a farsi le ossa sui mercati orientali.
Kendall ha tutto per essere grande, come ha sempre saputo anche Logan, tranne la freddezza.
E allora eccolo lì, sempre sull’orlo di una crisi che non saprà affrontare, di un turbamento che verrà a sopraffarlo, di un dubbio che gli impedirà di premere il grilletto e lo farà sprofondare nuovamente nello scoramento più totale, reclinato in un angolo, in posizione fetale mentre l’austera ombra del padre gli ricorda ogni giorno che non è Logan ma soltanto Kendall, il secondogenito dalle grandi potenzialità soffocate dalla cronica insicurezza di un figlio che non ha mai avuto amore.