Logan Roy sale sul palco per tenere un discorso che ha letteralmente strappato al figlio Kendall. Siamo al sesto episodio della prima stagione e al picco del loro scontro per la successione, ma non ancora al picco dell’umiliazione che il padre perpetra ai danni del figlio. La regia di Succession è spettacolare nell’immergere lo spettatore all’interno della scena e così, quando il magnate dei media sembra pronunciare una frase minacciosa, l’inquadratura si sposta proprio su Ken, certificando la nostra percezione che Logan si stesse riferendo proprio a lui. In realtà il tono, lo sguardo, la scena si ammorbidiscono perché il discorso verte “dolcemente” su Shiv, una Shiv non ancora umiliata, rotta e incancrenita a sua volta dalla disumanità paterna.
Se possibile quella che va in scena è un’umiliazione ancora più grande per Ken: la minaccia, esplicita, del padre sarebbe stato un guanto di sfida e dunque una disfunzionale, seppur concreta manifestazione di considerazione. Logan invece lo ignora, lo annichilisce. Non sarà la prima, non sarà l’ultima volta. Non sarà nemmeno forse la più eclatante tortura psicologica che subirà Kendall, così come i suoi due fratelli (in misura minore anche Connor, sebbene lui non sia mai stato coinvolto nella successione). Ma questa scena è particolarmente emblematica della consapevole malvagità che Brian Cox è riuscito a infondere al suo personaggio. Una cattiveria lucida, studiata a tavolino e particolarmente dirompente, per l’appunto, se il bersaglio sono i suoi figli.
È questa la chiave di Succession
“Vi voglio bene. Ma voi non siete persone serie” tuona Logan contro Kendall, Roman e Siobhan nell’ultimo episodio della terza stagione. “Noi non siamo nulla“, ribadisce Roman nel finale di serie. Succession sta tutta qua, nella presa di coscienza del vuoto cosmico che riempie le vite di queste persone, annoiate dalla ricchezza che li circonda, patologicamente indifferenti alle sorti del mondo, morbosamente ossessionate dalla ricerca di un potere che muove tutto il loro agire, anche a costo di prevaricare affetti e legami familiari. E in effetti sarebbe davvero impossibile provare empatia per personaggi così distanti da noi, se non alla luce di un rapporto familiare che definire tossico è quasi una specie di complimento.
Logan Roy è il fulcro attorno a cui ruota tutto questo marciume. È il Mangiafuoco che tesse le fila dell’azienda e della sua famiglia, senza mostrare capacità di riuscire a scindere queste due componenti. È la goccia di petrolio che si propaga e inquina tutto il lago, lasciando morire fauna e flora acquatica. Logan Roy è il monolite di Kubrick, un punto di riferimento inscalfibile dal corso degli eventi, anzi piegati al suo volere, uno status symbol a cui tutti aspirano e contro il quale sbattono sistematicamente contro. Più il legame sociale richiede affetto, emotività, comprensione, più egli si mostra freddo, incolore e inossidabile. Più i suoi figli palesano le proprie fragilità, più egli restituisce buio e gelo.
La violenza con cui il padre si scaglia contro Kendall, Siobhan e Roman è spesso verbale, talvolta fisica, quasi sempre psicologica. In tutti i casi, ad ogni modo, il suo atteggiamento è totalmente controintuitivo rispetto a una qualsiasi dinamica padre-figlio come siamo abituati a concepirla. Torna prepotente l’iconografia del monolite: la freddezza e il sadismo del patriarca ci restituiscono ancora una volta l’immagine di un ammasso di roccia, senza striature e soprattutto senz’anima. Al netto di qualsiasi sfumatura che ogni religione o teoria filosofica gli ha conferito nel corso dei secoli, quasi tutte le concezioni attribuiscono all’anima una funzione metacorporea, spirituale. L’anima è l’insieme di quelle componenti immateriali che danno origine al pensiero, al sentimento, alla coscienza. Particolarmente pertinente al contesto delineato da Succession è la definizione che ne fa Sant’Agostino:
«L’anima non è tutto l’uomo ma la sua parte migliore; e neanche il corpo è tutto l’uomo intero, ma la sua parte inferiore»
Ecco, Logan Roy sembra dotato solamente di un corpo, incapace di compiere alcun discernimento morale
A dirla tutta, con i suoi figli Logan, ancor più che il monolite kubrickiano, diventa l’osso con il quale, nella prima scena di 2001: Odissea nello Spazio, la scimmia percuote il proprio simile fino ad annientarlo. In senso lato la scimmia che detiene l’osso, e dunque il potere, riduce l’altro a sua esclusiva proprietà, lo piega al proprio volere. C’è un qualcosa di artefatto nel suo sadismo, come accennavamo poc’anzi, e la struttura narrativa di Succession sembra assecondare tale disegno del quale solo lui conosce la forma. Ogni stagione, infatti, vede un Roy specifico designato teoricamente alla successione e finire, in realtà, masticato e sputato dal perverso gioco del papà.
La prima stagione punta i riflettori sullo scontro tra Logan e Kendall, ovvero quello che sembrava il naturale erede dell’impero, sia perché il maggiore dei fratelli (a parte Connor, nato da una precedente relazione e comunque lontano dagli interessi di famiglia), sia perché quello in apparenza più competente e skillato. Kendall, però, è anche quello con la psiche più fragile e il padre non si fa scrupoli a mettere a nudo tutte le sue debolezze. Quale persona, dotata di anima, farebbe uscire sui media la notizia che il figlio si droga per isolarlo completamente? Quale uomo, dotato di anima, sacrificherebbe il figlio per tutelare la reputazione dell’azienda?
Nella seconda stagione, con Ken per gran parte fuori causa dopo il drammatico finale della prima, tutto sembra apparecchiato affinché Shiv subentri al padre. È lo stesso Logan a chiederle di diventare sua erede, salvo poi rimangiarsi la parola in maniera traumatica, nel corso degli eventi, più a fatti che a parole. E di nuovo: quale razza di genitore, se davvero possiede un’anima, metterebbe a repentaglio una delle acquisizioni più importanti della storia, pur di non lasciare che sia la figlia a guidare l’azienda? La presa di posizione del patriarca è qualcosa che va oltre il capriccio. Sembra esserci del godimento puro nel portare i figli a un centimetro dal loro sogno e poi mandare tutto in frantumi.
Se con Kendall e Shiv la violenza è più esplicita, c’è qualcosa di forse ancora più subdolo nel modo in cui annichilisce Roman. Dei tre è senz’altro quello più soggiogato dall’influenza paterna, nonché forse l’unico a mostrargli un affetto autentico, come dimostra il mental breakdown al funerale. Nella terza stagione è lui a passare in vantaggio in questa effimera corsa alla successione – coltiva i rapporti con Matsson, mostrandosi anche estremamente abile – salvo poi schiantarsi anche lui sulle proprie fragilità. Se è sicuramente esecrabile il modo in cui Rome esprime la sua sessualità deviata, un padre dovrebbe aiutarlo a curarla. Ma un padre che non ha un’anima lo ridicolizza, espone il suo disagio al pubblico ludibrio, forza il figlio ad affrontarlo in maniera coatta.
Un padre così non può esistere davvero. A meno che la sua crudele freddezza non faccia il giro e diventi amore.
Abbiamo già descritto i vari personaggi di Succession come persone vuote, il cui fine ultimo è quello di avere il potere, quello vero. Orientare l’opinione pubblica, premere il bottone rosso che faccia cadere un governo o eleggere un presidente. Logan Roy ha costruito tutto questo con le sue mani, ha chiuso gli occhi di fronte al putridume che avvolgeva vari reparti del suo impero e, forte delle sue spalle larghe, si è fatto carico di tutti i dilemmi etici che ne derivano. È stato in grado di sopportare tutto questo, ma non necessariamente un padre si augura che i figli affrontino altrettanto.
Nella veemente resistenza con cui Logan impedisce ai figli di succedergli al potere potrebbe celarsi un grande gesto d’amore, quello di chi ha provato un senso di colpa immane. Nessuno più deve essere vittima delle sue azioni, nessuno che gli è caro deve più morire come conseguenza di una decisione. Nessuno più dopo la sorella Rose, quell’ingombrante elefante nella stanza della coscienza di Logan Roy; la prova tangibile che anche lui un’anima ce l’ha eccome. E allora questa catena va spezzata: tenere lontani i figli in luogo di persone marce e corrotte, come Tom, Frank, Karl. La sua stessa creatura ceduta in scioltezza a Matsson.
Succession, nella sua grandezza, ci pone di fronte a questo straordinario paradosso, ma ci dimostra anche la caducità del piano di Logan. Il suo tarlo ha reso la distanza con i figli incolmabile, come ci aveva suggerito la sigla, e tutto gli si è ritorto contro. Ken, Shiv, Roman hanno disgregato quel che resta della famiglia Roy. Chi elemosinando una briciola di potere, chi brindando al suo fallimento e chi lasciato su una panchina a riflettere. A noi, parte integrante della storia grazie a quella regia sublime e a un coinvolgimento emotivo impreventivabile invece, resta in dote lo stesso interrogativo, con soggetto diverso: ma i figli di Logan Roy ce l’hanno un’anima?