Succession si avvia alla conclusione in un crescendo di emozioni e con una sceneggiatura capace di toccare vette sempre più alte come dimostrato in una delle puntate migliori nella storia della televisione. La forza di questa serie è tutta in una scrittura studiata in ogni minimo dettaglio, nell’eccezionale creazione di un contesto ambientale ed emozionale che, come una scacchiera, ospita già le pedine sul tavolo. Basta un tocco perché tutto prenda vita, perché ogni personaggio con mosse diverse ma coerenti con la sua natura segua la sua strada, sfidi l’altro in un gioco di incastri di grandiosa perfezione.
Questo studio minuzioso del terreno di scontro e delle psicologie trova magnifica esemplificazione già nella sigla in cui nulla è lasciato al caso. Il significato della sigla affonda nel significato stesso di Succession, attraverso una simbologia che restituisce lo smarrimento, la distanza ma pure la superba ostentazione di ogni membro di casa Roy.
Un affresco di forte immediatezza sul mondo dei protagonisti della serie.
Pur in alcune differenze che interessano le diverse stagioni la sigla mantiene alcune costanti che rendono ancora più palese il senso che l’opening vuole comunicare. Anche laddove subentrano variazioni sul tema, vedremo, è possibile ravvisare importanti significati che arricchiscono ulteriormente il quadro e lo rendono ancora più dettagliato e profondo.
A partire dall’immagine iniziale, quella che nelle aperture di prima stagione vede un padre in posa accanto a suo figlio, senza dubbio Logan Roy con al suo fianco verosimilmente Kendall, il vero “primogenito” ed erede. Nelle successive stagioni a questa immagine si sostituirà quella di tutti i figli affiancati, senza più la vicinanza del padre. Evidente il riferimento alla lotta tra fratelli, alla loro discesa in campo nello scontro per il potere. Anche visivamente notiamo che nel frame successivo tre fratelli sono vicini tra loro, uno, più alto degli altri, è a parte: si tratta naturalmente di Connor mai preso in considerazione nella successione.
Rimane infine soltanto Kendall (prima stagione) e Shiv (in tutte le altre): a essere venuto meno in questo frame è Logan, fuori scena, a cui guarda disorientata proprio Shioban quasi richiamandolo inutilmente a sé. Solo nell’ultimo frame di ogni opening tornano i figli in posa, tutti intenti a guardare, confusi, un padre ormai uscito di scena.
Per tutta la sigla la presenza di Roy si manifesta proprio così: tramite la mancanza.
È lontano, non a fuoco, tagliato dall’inquadratura, voltato. Esemplificazioni di un padre assente, disinteressato, costantemente proiettato ad altre priorità. È privo del volto, cioè disumano, manchevole di ogni spirito paterno e slancio d’affetto. I suoi gesti sono duri, fermi, nettissimi. Come poco prima della conclusione di ogni versione della sigla, quando a essere inquadrate sono solo le mani che fanno un segno reciso a tagliar fuori qualunque altra possibilità, qualunque compromesso. Così è Logan Roy, duro e insensibile automa disposto a tutto pur di raggiungere l’obiettivo.
Al palo restano quei figli che lo osservano da lontano, che ne vedono solo il corpo o le spalle, il cui sguardo è immancabilmente a loro precluso. Come Shiv che nei credits di ogni stagione di Succession guarda, distante, un padre sfocato intento a parlare con una donna, allusione, probabile, alle numerose relazioni extra-coniugali di Logan. L’ambientazione intanto spazia dagli esterni agli interni di una colossale villa che, però, capiamo rapidamente essere nient’altro che una gabbia dorata. Così si presenta per la seconda moglie, irrigidita sopra un lettino mentre fissa il vuoto nel giardino della lussuosa prigione. Così anche per i figli che si perdono nei meandri degli interni e solo di sfuggita scovano un padre che improvviso sparisce dietro un uscio, immancabilmente di spalle.
A questi scenari si sovrappongono presto quelli della grande città, della metropoli dove si esplica il potere della Waystar Royco, conglomerato basato sui media. Alle immagini dei giornali e all’evoluzione dei media nel corso del tempo si affiancano gli svettanti grattacieli che ancora una volta evocano smarrimento, alienazione, incomunicabilità, mentre la musica incalza drammatica.
Ecco, la musica, altro elemento fondamentale in queste sigle di Succession.
Elegante, raffinata, classica da un lato, espressione della nobiltà acquisita dei Roy. Ma nello stesso tempo drammatica e tesa, che diventa sincopata in un momento preciso, lo stesso per ogni stagione. Le note si fanno dure, ripetute, battute con violenza sui tasti mentre assistiamo a una scena che vede i fratelli intenti in una passeggiata sopra un elefante. Ecco il volto kitsch del potere: l’esagerazione, la pretenziosità di chi può tutto, perfino avere un elefante come animale domestico. Una nobiltà cafona e grossolana di parvenu cresciuti negli agi e privi di ogni scrupolo morale.
In corrispondenza poi delle riprese dei grattacieli e dei telegiornali mandati in onda anche la musica muta, con un suono che si fa più digitale, artefatto e che rievoca in forma uditiva proprio le sigle dei tg. Tutto contribuisce così, in un grandioso gioco di rimandi, alla rappresentazione plastica di Succession e della famiglia Roy. La solitudine dei figli è resa tramite inquadrature che li colgono sempre da soli, intenti in attività in cui non appare mai un amico di giochi perfino laddove, come nel tennis, sarebbe indispensabile. Ed eccoli allora naufragare in vizi precoci e assurdi come fumare un sigaro nel disinteresse generale, in una disperata ricerca di attenzioni e in un degrado morale che non trovi argini.
È tutta qui la grandiosa architettura dei credits di Succession, specchio perfetto di una serie che alterna analisi interiore e straordinaria resa delle dinamiche di potere. In poco più di un minuto l’opening restituisce già tutte le tematiche principali che lo show dipana nel corso delle stagioni. È questo il significato della sigla di Succession, un vero e proprio manifesto programmatico, perfetta cornice di un’opera che non smette mai di sorprenderci per sceneggiatura e interpretazione.