Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul finale di Succession
L’acqua. Ancora l’acqua. Acqua libera, pur tra gli argini di un fiume soffocato dal cemento. Acqua irrequieta, agitata, ma anche placida. Sinistra, evocativa, serena. Nel cuore pulsante di New York, l’Hudson mormora minaccioso. Pacifico. Mentre il sole si rifugia oltre l’orizzonte per offrire l’epilogo a un anfibio disperso sulla terraferma. Un uomo solo e assediato dagli spettri familiari, alla disperata ricerca di un motivo valido per continuare a vivere. Per esistere, senza limitarsi a un’asettica resistenza. Alla sterilità di un nome svuotato d’ogni significato e di un’eredità svanita, dissolta ben al di là della ricchezza acquisita. Relegata sullo sfondo dalle onde quiete e impetuose, non più messa a fuoco e incarnata dalla maestosità della Statua della Libertà. Invisibile agli occhi di un figlio ormai incapace di abbracciarla come fece, tanto tempo prima, un padre emigrato alla ricerca di fortuna.
Kendall Roy ha smesso di vivere, senza esser morto. Forse perché non era mai nato: è e non è allo stesso tempo, fluidamente. Diventato l’orfano di Schrödinger, si trascina in un personalissimo Purgatorio alla soglia di una fonte d’acqua. Ancora l’acqua, maledetta acqua ora intangibile. Lei sì, libera. Un’acqua che sospende da sempre un condannato all’eredità più ingombrante tra gli impulsi di una vita vera e appagante, plasmata a propria immagine e somiglianza, e quelli mortiferi di un aspirante suicida che non ha più niente da chiedere a un copione scritto da qualcun altro.
Si chiude così una delle opere seriali più grandi di tutti i tempi, Succession.
Con un minuto che sembrava non finire mai e che rievoca per certi versi quello de I Soprano. Fenomenale nello scorrere lento tra le simulazioni e le dissimulazioni di un capolavoro capace di giostrare, per quattro gloriose annate, tra le ambiguità di una narrazione che ha assunto la forma camaleontica dell’acqua, statica e in movimento. Una forma mutevole mai soggetta alle regole del microcosmo nel quale si è sapientemente inserita, in cui tutto è valso e parimenti ogni suo contrario. Tra le righe di un ordinatissimo caos, una sovversiva tragedia shakespeariana si è così convertita in una farsa grottesca reinventando linguaggi, situazioni e intrecci per abbattere ogni potenziale linea di confine tra dramma e commedia.
Gli echi di Seinfeld hanno così valorizzato le lontane parole di un Re Lear qualunque, traducendosi in un masterpiece intimamente unico. Un flusso allo stesso tempo prevedibile nello sviluppo e del tutto imprevedibile nella sua espressione: un paradosso costante in cui s’è rivestita di radicale povertà la ricchezza più sfrenata, e in cui le dinamiche disfunzionali di una famiglia insostenibile hanno scritto alcuni tra i capitoli più intensi mai visti in un’opera televisiva. Sotto la forma dell’acqua, simbolica e incessante nel definire e ridefinire momento dopo momento l’esistenza impossibile di Kendall Roy, fino a rappresentare l’essenza della serie stessa.
Non è un caso, infatti, che l’ultimo frame di Succession si inglobi in uno specchio d’acqua.
La costante del primattore degli istanti conclusivi, uno che nel corso delle stagioni si è spesso ritrovato ad affrontarla nelle forme più disparate. Un ricorso perenne dai significati profondi, mutevoli e antitetici. Tra la vita e la morte, la fonte primaria della nostra sopravvivenza, la sostanza della quale siamo prevalentemente fatti, ha accolto nel suo ventre liquido il percorso di un uomo che ha alternato vigorose bracciate verso la gloria alla crocifissione della vittima sacrificale e all’imminente soffocamento, sognante e disilluso nel tempo di uno sguardo frenetico. Fin dalla prima stagione e dalla sua scena madre, un crocevia che si è ripresentato negli ultimi minuti dell’ultima puntata e che ha segnato il suo viaggio irrealizzato verso l’eredità di un padre oltremisura scomodo.
Ci riferiamo all’omicidio commesso da Kendall nel corso del matrimonio della sorella Shiv: l’omicidio di un uomo qualunque, per gentaccia come loro. Ma in fondo non per uno come lui, incapace di gestire al meglio il fardello dei sensi di colpa che porterà con sé per il resto dei suoi giorni. L’acqua, in quel frangente, assume allora il ruolo della madre arcigna che inghiottisce, sotto la forma di un lago, l’auto della povera vittima, e della madre salvifica che ribattezza Kendall attraverso una pioggia battente.
Una pioggia che lava via il peccato e il peccatore, solo in superficie.
Da quel momento in poi, il rapporto tossico di Kendall con l’acqua si stringe e si sublima nei momenti più intensi della sua vita, quasi sempre in occasione degli inizi o i finali di stagione. Specialmente se connessi al padre, come sempre accade.
Il bagno in una piscina lo porta allora a sfiorare ripetutamente l’annegamento, negli ultimi minuti della terza stagione. Mentre in precedenza, negli ultimi minuti della seconda, lo converte nel Cristo in croce, plasticamente galleggiante in una posa inequivocabile e intrecciata all’idea del martirio che Logan, sempre lui, gli impone in nome di una dinamica di potere che prescinde da qualsivoglia affetto familiare.
Kendall vive in simbiosi con l’acqua, come se rappresentassero ormai una sola entità nel bene e nel male.
Fluttua a faccia in giù negli istanti più difficili, quando tutto sembra ormai perduto. Galleggia a faccia in su se la speranza si affaccia nell’oscurità. E nuota, nel momento in cui s’illude di aver finalmente trovato un posto nel mondo. Un posto in cui essere grande, realizzato. Il figlio di Logan Roy, per davvero: per non essere in alcun modo Logan Roy.
La ciclicità con cui Kendall viene calamitato dall’acqua non si riflette però in alcuna linearità: la sua esistenza è discontinua e altalenante, mentre oscilla vanamente tra il trionfo e il fallimento senza trovare mai l’equilibrio necessario. Girando in tondo per tornare sempre al punto di partenza, immutabile come ognuno dei protagonisti di questo grande racconto. Succession, dal canto suo, tiene sempre aperta ogni possibilità, salvo poi farci capire che fossero sempre state chiuse dalla prima all’ultima: si fa acqua, sorgente rassicurante e rovinoso nubifragio. Una rinascita di stampo cristiano e una punizione divina degna dei capitoli più duri dell’Antico Testamento.
La spinta dell’acqua assorbe ogni istante di Kendall, intensificandosi ulteriormente nel corso della quarta stagione. Nel sesto episodio, per esempio, in cui l’erede sembra aver spazzato via l’ombra dell’ormai defunto Logan con lo spettacolo carismatico con cui lancia la sua ultima fatica: Living+. Dopo aver chiuso la presentazione, Kendall, carico di entusiasmo e, all’apparenza, sempre meno vittima di se stesso e degli abusi di un passato incancellabile, cerca l’acqua. Immediatamente. Si tuffa in acqua e nuota, come mai aveva fatto. Al punto da dare l’impressione di poter dominare quella distesa salata, benedetta. Celebrante e non più salvifica, la dimensione ideale di un anfibio che ha capito di poter essere la divinità che aveva sempre sognato di essere: un novello Nettuno, disceso tra gli umani per condurli verso una nuova era.
L’acqua ha ormai invaso la terraferma e irrompe in scena anche nel momento in cui i nostri occhi non possono scrutarla.
Possono solo sentirla riempire lo spazio di una chiesa, al funerale di Logan Roy. Quando Kendall – e chi, sennò – ne usa ogni goccia per dare sostanza al ricordo del padre scomparso. Il cui successo, gli atti di un uomo passato ai fatti, è un geyser, mentre i soldi piovuti sul mondo si configurano come piccoli corpuscoli che ci pervadono. Kendall, in quel momento, evoca un’idea totalizzante – e totalitaria – dell’acqua per omaggiare la grandezza dell’uomo che gli ha rovinato un milione di vite e l’ha ribattezzato per un miliardo di volte, combinando così l’odio con l’amore.
Ancora: il naufragio con la stretta calorosa, il benessere col dolore. L’ambizione col nichilismo. Paradossi, mai insensati. Flussi liberi d’acqua, di coscienza. Linfa della commedia e di una tragedia, come in fondo faceva lo Shakespeare dell’Amleto e di Macbeth, uno a cui Succession deve parecchio. Anche lui è quindi acqua al pari di Kendall, il torrente agitato, di Logan, la cascata impetuosa, e di Succession stessa, fino all’ultima puntata. In cui tutto cambia per poi scoprire che niente, in fondo, è mai cambiato dall’inizio: tutto si è caricato, al massimo, di nuovi inaccettabili pesi.
Era inevitabile, persino prevedibile.
Nel finale di serie, d’altronde, l’acqua ha avuto un ruolo di primissimo piano. Fin dal momento in cui Kendall, impegnato a convincere Roman e Shiv a proposito della sua candidatura a re, si tuffa nell’acqua dei mari caraibici per chiudere l’incontro risolutore. Kendall, in un frangente illeggibile, sparisce dai nostri schermi, nel buio di un acqua che lo attrae fatalmente. Per poi ricomparire diversi minuti dopo, all’alba di quello che sembrava essere il battesimo dei battesimi: il momento in cui la “succession” pareva essere sua una volta per tutte mentre i fratelli, sinistramente, evocavano invece i peggiori scenari mortiferi. Per scherzo, ma non troppo.
Niente di diverso da quello che vedremo pochi minuti dopo, in quel finale subdolamente aperto e del tutto coerente con quello che Succession ci ha sempre raccontato, arrivato a seguito dell’orribile disfatta che ha portato i Roy a perdere, per sempre, la creatura del padre. L’acqua si ripresenta puntuale, ma stavolta Kendall non può raggiungerla: può solo scrutarla da fuori quasi fosse la svanita Waystar, separato da una barriera che sembra mettere in standby la sua stessa esistenza, tanto aggrappata alla vita quanto alla morte.
Elementi liberatori, in ogni caso. Impulsi che spingono verso una scelta libera.
Un’esistenza consapevole o la consapevole interruzione della stessa. Ma no, Kendall non può più immergersi dentro: non può più scegliere nemmeno di non vivere. E scopre di non averlo mai potuto fare: non è un killer, manco di se stesso. È ingabbiato in un loop dorato.
La profezia, scritta fin dal primo istante da un destino a cui nessuno ha mai saputo contrapporsi attraverso un’azione davvero concreta, si è avverata. Ed è quella che Succession ci aveva sempre nascosto in bella vista, senza fare granché per nasconderla: così come Shiv ha inconsapevolmente ripercorso il destino dell’odiata madre, Kendall è diventato suo padre. È diventato Logan Roy, assumendone gli oneri esistenziali senza poter assaporarne il dolce sapore degli onori.
Lo vediamo così di spalle in un’inquadratura che vediamo per la prima volta dopo averla vista per quattro stagioni, in ogni singola puntata, al termine della bellissima sigla della serie. Mentre alle sue spalle Colin, il fido Colin, lo segue ossequiosamente per proteggerlo da se stesso, ricostruire una scena pressoché analoga del primo episodio della quarta stagione – con Logan, al posto suo – e ricordargli in ogni istante, senza volerlo, di dover essere figlio di suo padre.
Un’ombra fatale, sempre alle sue spalle. Immortalata nel tempo, statica fin da quando era un bambino di sette anni.
Il cerchio così si chiude, la ruota non si spezza e la tragedia si rinnoverà, di generazione in generazione. Mentre l’acqua continuerà a scorrere con una carezza in un pugno, illudendoci all’idea di un movimento. E il suo interprete prediletto, abbandonato a un destino ineluttabile, dovrà rimanere fuori. Mentre Succession, arrivata ai titoli di coda, si riverserà nei nostri ricordi e si trasformerà in un cristallo. Un cristallo di ghiaccio, indistruttibile. L’ultima metamorfosi dell’acqua, grazie a una serie meravigliosamente liquida che ci ha fatto girare in tondo per raccontarci la divertentissima storia di un incubo senza fine. Manco fossimo finiti dentro gli ingranaggi di un sadico mulino.
Antonio Casu