Behind The Series è la rubrica di Hall of Series in cui vi raccontiamo tutto quel che c’è dietro le nostre serie tv preferite, sul piano tecnico, registico, intimistico, talvolta filosofico. Oggi è il turno di Suits.
Il giovane e brillante fattorino della droga Mike Ross tenta di svignarsela da un affare finito male, rifugiandosi per caso nell’aula presso la quale si stanno svolgendo i colloqui per un posto di lavoro in un importante studio legale di New York. Nonostante non abbia mai completato gli studi di legge, Mike impressiona Harvey Specter, socio senior del prestigioso Pearson Hardman in cerca di un associato: stufo di avere tra i piedi i soliti galoppini fatti con lo stampino, Harvey riconosce in Mike un enorme talento grezzo e una straordinaria memoria fotografica, così lo assume nonostante il ragazzo non sia un avvocato. Queste scene danno il via alla storia di Suits, l’accattivante e avvincente legal drama creato da Aaron Korsh nel 2011 e terminato nel 2019, dopo nove intensi anni di intrighi, amicizie indissolubili e imprevedibili colpi di scena.
Il titolo della serie, che avrebbe dovuto essere “A Legal Mind”, è stato successivamente sostituito dall’evocativa intuizione su “suits“, un gioco di parole che in inglese significa non solo “causa legale” (“lawsuit”), ma indica anche il classico completo da ufficio.
Non a caso il personaggio di Harvey è ispirato all’omonimo capo del suo ideatore: prima di diventare uno scrittore e showrunner televisivo infatti, Aaron Korsh ha lavorato a Wall Street come agente di investimento (lo stesso lavoro che poi svolgerà Mike all’inizio quarta stagione) “per un ragazzo di nome Harvey”, come lui stesso ha dichiarato. I colletti bianchi di Manhattan vivono vestiti in questo modo, con giacche e cravatte da migliaia di dollari che avvolgono corpi sempre meno empatici, votati solo al denaro e al successo e vittime di un materialismo bieco invocato per camuffare con il filtro dell’autorità un’immagine vuota. Dall’alto di quei grattacieli simbolo del centro del mondo, gli squali di New York credono di poter comandare l’intera città grazie al loro sconfinato potere e a una ostentata supponenza: un meccanismo che solo Mike Ross può spezzare, grazie ai sani ideali di uomo qualunque che riesce con fatica a infiltrare all’interno dello studio e del cuore dello spietato protagonista di Suits.
La patina dorata di lusso e magnetismo che avvolge gli introspettivi personaggi (qui potete trovare la classifica dei 5 migliori in assoluto), insieme agli sketch umoristici che contaminano la serie di intrattenenti momenti comedy, costituiscono il motore propulsivo che spinge i fan più appassionati a seguire le vicende del Pearson Hardman fino al loro commovente epilogo, quegli stessi aspetti di Suits che abbiamo approfondito in pagine e pagine di articoli riguardanti le più svariate tematiche.
Ciò a cui finora non avevamo mai prestato attenzione, invece, è il piano strettamente tecnico della serie. Più precisamente, ci riferiamo a una presenza che fa costantemente da contorno silente alle vicissitudini dei personaggi e che pervade in maniera dirompente il “dietro le quinte”, pur costituendo l’anima stessa di Suits: la legge.
Ogni episodio infatti ruota attorno a uno specifico caso giudiziario o comunque a una problematica di carattere giuridico, che richiedono tutte le energie dei brillanti avvocati dello studio per essere risolti, e che si chiudono con la fine della puntata oppure si protraggono persino nell’arco di più stagioni: il settore più battuto è naturalmente quello del diritto societario, ragion per cui di solito la questione riguarda un’acquisizione, una fusione o un disinvestimento, ma spesso le condotte palesi o sottaciute dei personaggi finiscono per sfociare nel penale. Tuttavia ciò a cui lo spettatore assiste guardando Suits non è tanto come funziona la legge, quanto le tecniche abilmente messe in atto dai legali per eluderla, piegandola al proprio volere senza violarla: Harvey insegna a Mike e al suo pubblico a svicolare, ingannare e bluffare di fronte ai suoi avversari per riuscire ad accaparrarsi con le unghie e con i denti la vittoria di un caso.
“Quando hai una pistola puntata alla testa e ti chiedono di fare una cosa, farla non è l’unica opzione per salvarti: ci sono almeno altre duecento opzioni“.
Far arrivare il caso in tribunale inscenando un processo è l’espediente più gettonato nei prodotti televisivi e cinematografici a tema giudiziario, perché consente di creare quel climax di suspense che raggiunge il suo apice nel momento in cui il giudice pronuncia la sentenza. Suits al contrario non abusa del tribunale, centellinando le controversie che approdano effettivamente in aula: ogni caso che Mike e Harvey prendono in consegna è un vero e proprio combattimento all’ultimo sangue che si disputa tra proposte su carta e parole pungenti, minacce esplicite o velate e stratagemmi per incastrare la controparte. Un’arena virtuale in cui l’esito di questo scontro verbale è determinato spesso dall’abilità di persuadere i propri stessi clienti a collaborare, facendo leva sul rapporto di fiducia che li lega al proprio legale.
Molto più frequenti sono invece i cosiddetti “mock trial“, ovvero dei finti processi che servono agli associati per imparare a cavarsela davanti a una vera corte o per risolvere contestazioni minori tra partner: ironici e puntualmente sopra le righe, questi dibattimenti fittizi regalano alla serie un ritmo più dinamico e meno serioso.
Ma proviamo ora a calare tutto ciò che abbiamo visto per anni sullo schermo nella realtà effettiva: Suits è davvero così ferrata nel ricreare il suo scenario ispirato all’affascinante quanto complesso universo del diritto?
Partiamo subito da uno scivolone clamoroso: ogni volta che il leggendario, fulgente e invincibile Harvey Specter ha pronunciato le parole “reato penale“, da qualche parte un professore di diritto penale si è perforato i timpani con la stessa sadica penna nera che impugna per verbalizzare i 18 agli studenti di giurisprudenza. Il motivo di tanto orrore è presto detto: in realtà il reato è sempre e solo penale, pertanto almeno dal punto di vista logico-giuridico non si commette un’inesattezza. L’errore è però grammaticale: essendo il reato un illecito solo penale (non esistono reati civili o amministrativi), si tratta di un pleonasmo, ossia di un’inutile ripetizione.
Tutto qui? Una semplice critica da grammar-nazi è sufficiente a smontare la credibilità di una serie di successo? Beh, basti pensare che se tale asserzione raggiungesse (malauguratamente) l’orecchio di un vero avvocato, questi difficilmente riuscirebbe a nascondere una smorfia contrariata: per fare un paragone con un altro campo della scienza, se fossimo nell’ambito della zoologia sarebbe come dire “cavallo equino” o, nell’ambito della geometria, “quadrato quadrilatero“. Risulta quindi abbastanza inverosimile che l’espressione sia uscita con tanta nonchalance niente poco di meno che dalla bocca del prodigioso Harvey Specter (anche se, a onor del vero, bisogna ammettere che si tratta di un errore di doppiaggio nella trasposizione in italiano, che quindi non inficia la tenuta della serie in lingua originale).
Avete presente inoltre tutte le volte in cui i nostri avvocati preferiti annaspano a un passo dalla sconfitta, ma poi tirano trionfalmente fuori una sentenza del 1815 che conferma la loro linea difensiva e magicamente vincono la controversia? Bene, dimenticatevele. Almeno nel nostro sistema giuridico infatti, riesumando la delibera in questione l’avvocato di turno farebbe la scoperta dell’acqua calda. L’ordinamento italiano (e dell’Europa continentale in generale) è strutturato sul modello del civil law, che si contrappone a quello di common law tipico degli ordinamenti di origine anglosassone (incluso quello degli Stati Uniti, in cui Suits è ambientata): le due tipologie si differenziano specialmente per i ruoli assunti dalla legge scritta e dalle decisioni della giurisprudenza in relazione ai casi concreti.
Il primo modello riconosce il ruolo preminente della legge, rigorosamente scritta in codici o corpi normativi, nel guidare le decisioni della magistratura, che deve attenersi al rispetto della normativa vigente ed applicarla al caso concreto. Il secondo modello invece, divenuto famoso in tutto il mondo proprio grazie agli innumerevoli legal drama statunitensi, si basa sulle decisioni dei giudici, per cui il caso concreto è (al contrario) il punto di riferimento e le sentenze hanno natura vincolante nella risoluzione dei casi successivi.
Questa dicotomia spiega anche perché, se Mike Ross fosse stato un pischello di Strangolagalli, la Jessica Pearson di un rinomato studio legale sito in Roma avrebbe impiegato qualcosa come trenta secondi a scoprire il segreto di Harvey e smascherare la loro frode. In America infatti la preparazione accademica dei giuristi è spiccatamente pratica, per cui se buttare in mezzo ai lupi usciti da Harvard un ragazzino che non ha mai terminato gli studi di legge sembra fantascienza persino negli Stati Uniti, comunque sarebbe perlomeno plausibile per Mike imparare sul campo e colmare le lacune grazie all’esperienza: sarebbe invece impossibile esercitare la professione legale nel nostro Paese se sprovvisti di una laurea in giurisprudenza, dato il taglio prettamente teorico dell’insegnamento universitario.