* Attenzione, l’articolo contiene spoiler su Suits, il legal drama che vede protagonista Harvey Specter *
Harvey Specter ha sedotto tutti. È successo a me, è successo a te ed è successo, in un modo o nell’altro, a chiunque abbia visto almeno la prima stagione di Suits, il legal drama di USA Network in streaming anche su Netflix; o meglio, i primi fotogrammi della primissima puntata, cioè quando Mike Ross rovescia davanti al suo futuro mentore una valigetta piena di marijuana. Il ritmo frenetico che inaugura la storia e pervade l’intera serie, amplificato dalle note introduttive di Greenback Boogie, ci ha subito accalappiato e, con esso, il suo protagonista. Suites è un’iniezione a puntate di euforia, ci lascia assaporare il gusto del successo e ci trasmette l’ebbrezza di vivere sempre al top, come fa Harvey. E anche se, come me, non amate il tipico uomo inamidato e ingelatinato, resistere al fascino di Harvey è oltremodo impossibile, anche perché dimostra subito di essere più di un bel visino. Ha un suo codice morale, è intelligente, ha un gradevole senso dello humor, degli ottimi gusti musicali, è ambizioso e possiede il carisma degno del protagonista di un prodotto di successo – che parla del successo – come Suits. Ci ha insegnato a mantenere la calma e a leggere le persone, a essere sempre un passo avanti e a risolvere i problemi, anche i più insormontabili e anche contro i giganti. Indubbiamente il paragone con il Cavaliere Oscuro è lampante. Lui stesso non perde mai occasione di paragonarsi a Batman e noi gli perdoniamo tutto, anche un ego smisurato che – poveri noi! – ci incanta.
Harvey Specter è insindacabilmente e oggettivamente un vincente
Mente Batman ci osserva dall’alto di Gotham per proteggere la città, the best closer in the city ci guarda dall’alto del suo sontuoso ufficio per ricordare a noi comuni mortali, agli altri e a se stesso di essere un vincente a cui piace sguazzare nella gloria, che ha costruito con le sue stesse mani, e ora si gode la vita che ha scelto, al contrario di Bruce Wayne. E non c’è nulla di male. Harvey Reginald Specter è un personaggio solido, non è mai banale ed è stato costruito con un’enorme consapevolezza. È volutamente attraente e atletico, è affascinante, ricco e sicuro di sé; il merito ovviamente va anche a Gabriel Macht, l’attore che lo ha reso impeccabile. Ha carisma da svendere ai saldi prenatalizi, talento da manuale e ambizione; è dotato di un invidiabile autocontrollo, di capacità di analisi e ha fin troppa consapevolezza di sé. Non è borioso e non è nemmeno arrogante: è simpaticamente spavaldo. Ma questa è solo una facciata o dietro c’è dell’altro?
Harvey è l’incarnazione del concetto di perfezione: sa come vuole vivere e non ha paura di farlo.
Jessica Rabbit (e non Pearson) direbbe: lui non è perfetto, è che lo disegnano così. Harvey è stato disegnato volutamente per essere il volto del successo. Lui è un uomo-monumento a cui piace pensare di essere un supereroe invincibile che combatte gli squali in un oceano grigio e insidioso (e al contrario del Cavaliere Oscuso, non è nemmeno un solitario, anzi ama stare in compagnia dei suoi cari). Ma in realtà è esso stesso uno squalo spietato che gioca per se stesso e per la sua squadra. Considerazioni morali a parte, Harvey resta nel profondo un uomo buono, il quale alla fine della favola finalmente passerà al “lato chiaro” della legge, la serie B: avrà il suo lieto fine (che ha messo tutti d’accordo) al fianco della sua principessa, Donna, e del suo fido alleato, Mike, il quale diventerà il suo capo, a Seattle. D’accordo, passi la similitudine come un moderno Bruce Wyne o un Superman dell’avvocatura di Serie A, ma in questo non riesco a vedere un lato positivo. Come spiega David Carradine nel suo strepitoso monologo finale in Kill Bill – Vol.2, anche Specter, come il personaggio di Uma Thurman, è nato supereroe:
Superman non diventa Superman, lui è nato Superman, quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent.
Superman non è umano, ma ha comunque il suo punto debole, la sua kriptonite. Anche se a volte è difficile da credere, Harvey è un nativo di questo pianeta ed è fatto di carne ed ossa, e ogni tanto lo dimostra pure. Superman indossa il costume di Kent per mischiarsi tra di noi, per passare inosservato e salvarci dai nostri stessi casini. Harvey, al contrario, nasce umano, ma smette di esserlo rinunciando alla sua vulnerabilità. Ha indossato il suo completo da centinaia di dollari, se l’è cucito addosso per nove stagioni e – salvo in rarissimi casi – non ha mai allentato il colletto. Ha deciso di nascondere la kriptonite tra cose costose e cimeli da collezione. Ha edificato l’immagine del vincente, ha indossato il mantello, poi ha spiccato il volo e si è allontanato da tutti, perfino da se stesso. Ed è stato proprio quando ho realizzato che avremmo avuto solo qualche piccolissimo scorcio della sua vulnerabilità che ho perso interesse per il suo personaggio e, a lungo andare, anche il suo fascino non sembrava più smagliante come una volta.
Harvey non si sbottona mai, lui è un Superman al quale non hanno scritto la parte di Clark Kent.
Ogni tanto lascia intravedere delle crepe che poi, come la tecnica giapponese del kintsugi, vengono riparate dall’oro, i dolori vengono superati, i problemi risolti e così l’avvocato più cool di New York torna ad essere forte tanto quanto era prima: né più né meno. Nel corso di nove lunghe stagioni non c’è mai stato un momento in cui è emerso un barlume autentico di conflitto interiore. Ha qualche trauma infantile e delle fratture emotive, come chiunque, ma sono tratteggiate appena e ci vengono mostrate di sfuggita, solamente per ricordarci che anche lui è umano. Aaron Korsh ci ha regalato un legal drama con tutti i crismi, non c’è dubbio. Il carisma dei personaggi, dal magnetico Harvey all’esplosiva Donna, è fuori discussione. Tutti quanti compiono un’evoluzione verso una forma più completa, più umana, più matura mentre la maschera di Harvey Specter non cade mai. Ogni tanto si solleva, ma poi torna salda al suo posto a nascondere qualunque debolezza affascinante.
Un loop ampolloso di citazioni grandiose
I’m a closer. I’m the best goddamn closer this town has ever seen.
A furia di ripeterlo, è diventato un mantra svuotato del suo senso originale. Più lo ripete più il suo lato umano viene meno, fino a trasformarsi in una copia sbiadita dell’originale, proprio quello che ci ha sedotto all’inizio della storia. D’accordo, qualche volta è caduto, ma non si è ferito davvero né ha imparato una nuova lezione e, come un “pupazzo torna in piedi”, è ritornato saldo nella sua posizione plastica di partenza. Poi ancora, e ancora, fino a diventare prevedibile. A un certo punto mi sono stancata di Harvey Specter perché l’alone di successo, tenacia e autoconsapevolezza, inizialmente intriganti, con il passare del tempo finiscono per intrappolarlo in un loop eterno di autocitazioni altisonanti. Quello che rende Superman, e ogni supereroe, interessante è il loro punto di rottura che Harvey ha di sicuro, ma non raggiunge mai. Il suo ego smisurato avrebbe potuto essere la sua kriptonite. In parte lo è ma non è stato sfruttato a dovere. Non scatena mai quel twist capace di ribaltare tutto per deviare la narrazione e arricchirla di increspature stuzzicanti e mai prevedibili. Harvey resta sempre ben piantato a terra, come un monolite a cui succede di tutto, senza essere mai scalfito. Ha dei nemici, ogni tanto rischia di perdere un caso, un cliente, un amico, un familiare, l’amore o lo studio legale, ma poi tutto torna al suo posto e Harvey non si è mosso di un centimetro.
Il rapporto con la madre
Uno dei rari spiragli di umanità arriva dal rapporto con sua madre, Lily Specter. Harvey non è riuscito a perdonarla fino in fondo quando era in vita, ha perso l’occasione di recuperare il rapporto con lei e questo sarà uno dei suoi più grandi rimpianti e in parte, scopriremo, il loro rapporto teso ha segnando molto anche il suo carattere. Non spetta a noi giudicare il suo operato come genitore e, come sappiamo, Lily sa di aver commesso degli errori. Non è stata presente nella vita dei figli, provocando in Harvey delle insicurezze, però lui la condanna per il motivo sbagliato, cioè per il fatto di aver tradito suo padre. Ma a quanto pare l’avvocato non è nemmeno a conoscenza di tutta la storia. Ha alzato un muro, ha indossato la calzamaglia da supereroe e l’ha tagliata fuori dalla sua vita e con lei chiunque commettesse errori, riservando solo giudizi severi e privi di comprensione. La separazione dei genitori può essere traumatica per un bambino, ma Harvey ha monopolizzato il problema e, proprio come un bambino capriccioso, anche da adulto ha continuato battere i piedi a terra senza sentire ragioni. Passi il trauma dell’abbandono, ma le scelte sentimentali di sua madre non dovrebbero essere un affare che lo riguarda. Così davanti a qualunque forma di tradimento coniugale, verso se stesso o verso terze parti, Harvey si chiude, trasformando un’interessante debolezza umana – la sua incapacità di fidarsi – in un capriccio banale e prevedibile, tagliando fuori chi vorrebbe stare dalla sua parte. Come ha sempre fatto con Louis Litt che, al contrario, ha avuto un’evoluzione sorprendente ed entusiasmante, diventando di stagione in stagione il cuore pulsante della serie e una piacevole sorpresa.
Chi si nasconde dietro la maschera del supereroe impomatato?
I’m here. You’re here.
Harvey Specter ha lavorato sodo, ha eretto un monumento a suo nome ed è rimasto a guardarci da lì su, senza più scendere. Sente di avere un obbligo irrinunciabile nei confronti di questa maschera e si è fatto carico dell’enorme peso della perfezione. Ma chi c’è sotto il completo? Dov’è l’essere umano che sbaglia, che cade e si scompone? Il finale ci regala quantomeno la soddisfazione di vederlo passare dal lato “giusto” della legge. Il cerchio si chiude. Mike e Harvey rivivono il loro primo incontro, questa volta al rovescio. Il suo pupillo è cambiato, è evoluto ed diventato l’uomo e l’avvocato che ha sempre voluto essere, e che sua nonna avrebbe voluto che fosse. Il mentore, al contrario, partiva da “quassù” ed è rimasto lì su, proprio dove lo abbiamo conosciuto. Non importa che abbia deciso di lasciare lo studio, ora Litt Wheeler Williams Bennett, per occuparsi di cause più comuni. Non importa nemmeno che a Seattle nuoterà tra pesci più piccoli: Harvey non sì sbottonerà il colletto della camicia.
Sotto ai jeans e a una maglia casual, temo che il completo gli resterà cucito addosso. Con il costume di Superman sotto e gli abiti di Clark Kent sopra, Harvey Specter avrà pur accettato di scendere a bassa quota, ma rimane il monolite di sempre, con la febbre del giocatore, la voglia di mostrare la stoffa del campione e di mettere tutti in riga. Era interessante fino a quando nutrivo ancora la speranza che dietro al supereroe ci fosse un’altra faccia da raccontare, una kriptonite da svelare. Ma Harvey Specter non si è allentato il colletto ed è rimasto intrappolato in un elegante abito di sartoria, costoso, inamidato e senza macchia.