Prendiamo un posto di lavoro all’apparenza comune, riempiamolo di una miriade di personaggi e aggiungiamoci un pizzico di sana follia: questa è la classica ricetta per una work comedy di successo. Brooklyn Nine-Nine, Parks and Recreation, The IT Crowd e simili sono tutte serie tv davvero spassose, ma se dovessimo stabilire, per livello di popolarità mondiale, quale debba essere considerata la regina incontrastata di questo sottogenere non avremmo molti dubbi prima di pensare a The Office. Iconica e amatissima, frizzante e originale, l’acclamata sitcom ha fissato importanti standard nel panorama seriale e, non a caso, molte delle susseguenti workplace comedy sono via via state pubblicizzate come le papabili eredi della serie e tra queste figura una certa Superstore.
Messa in onda dalla NBC per un totale di sei stagioni, la sottovalutata Superstore ha dovuto subire, sin dal suo primo rilascio, costanti paragoni con la più famosa The Office che hanno più volte rischiato di farla sfigurare a confronto. Dopotutto, ai tempi della prima stagione, erano davvero molti gli aspetti che le due serie condividevano e in molti finirono per reputare la neonata sitcom come una brutta copia dello show con Steve Carrel.
Un giudizio che sicuramente poteva poggiare su alcune basi, ma non condivisibile da chiunque si fosse soffermato nella visione di Superstore e ne avesse davvero compreso il senso e lo stile. Certo, sarebbe ipocrita affermare che Superstore non debba parte della propria formula vincente proprio a The Office, ma sarebbe comunque sciocco da parte nostra rifiutarci di riconoscere le evidenti differenze tra le due serie, così come negare i punti di originalità dello show con America Ferrera.
Quali sono dunque i punti di contatto tra le due sitcom? E quali le grandi differenze?
Sicuramente il soggetto di base delle due comedy non pare poi così diverso: in entrambi i casi seguiamo infatti le vicende e le bizzarre avventure di un numeroso e variegato gruppo di buffi personaggi impegnati a lavorare in un posto all’apparenza banale e comune che però riserva sorprese dietro l’angolo. Da un lato un ufficio aziendale come tanti, dall’altro un banale super market sul modello degli americani Walmart. Luoghi di lavoro in cui i colleghi finiscono col tempo per costruire una grande e disfunzionale famiglia e nei quali emerge con grande forza l’idea che anche nelle piccole cose possa risiedere della bellezza.
Personaggi che in entrambi i casi riflettono precisi archetipi come “il capo imbarazzante“, “il divertente e intelligente“, “la giovane svampita“, “lo sfigato che tutti disdegnano” e così via. In fondo, approcciandoci a Superstore dopo aver visto The Office, tutti hanno trovato grandi similitudini e parallelismi tra i personaggi dei due show, che si fanno totalmente palesi nel binomio Dwight-Dina, a prima vista davvero molto vicini.
Ma al di là delle ovvie similitudini date dal tipo di progetto e dal filone delle work comedy, affermare che Superstore sia solo una brutta copia di The Office significa non aver ben compreso le dinamiche interne alla prima e di aver fornito un’opinione semplicistica e non sufficientemente approfondita.
Perché con il passare del tempo Superstore ha imparato a staccare il cordone ombelicale dalla serie madre e pur non rinnegando le sue origini ha saputo spiccare il volo da sola. In primis, Superstore ha col tempo maturato uno stile totalmente personale creando un prodotto valido e a suo modo originale: le gag proposteci sono infatti strettamente legate all’ambiente in cui lo show si svolge.
Le dinamiche interne al Cloud9 sono uniche e irripetibili, soprattutto per quanto riguarda gli spassosi stacchi che vedono i clienti del negozio avere comportamenti assurdi e divertenti, ma anche assolutamente realistici e in cui potersi proprio malgrado ritrovare. Ma non solo: l’umorismo di Superstore si segnala per spassosissime running gag (battute divertenti o riferimenti comici che ritornano ripetutamente nella serie) e tramite situazioni sempre nuove e mai scontate che catturano il pubblico e lo fanno sentire a casa.
Ma ad appassionare gli spettatori ci pensano soprattutto le vicende dei protagonisti dello show, che col tempo acquistano sempre più spessore e si fanno sempre più tridimensionali. Quelli che potevano all’apparenza sembrare personaggi piatti e uguali a tanti altri infatti acquistano via via personalità sempre più definite e uniche, distaccandosi dagli archetipi di base sui quali erano stati inizialmente costruiti. Perciò iniziamo a vedere le differenze tra un Glenn e un Michael Scott, tra Jim e Jonah, tra Dina e Dwight. I personaggi di Superstore, infatti, pur essendo debitori in molto a quelli di The Office, non sono loro copie sbiadite ma conservano semplicemente solo alcune delle loro caratteristiche.
Personaggi per i quali viene estremamente facile provare simpatia e con i quali ritrovarsi a empatizzare grazie anche al variegato e multietnico cast che compone lo show, perfettamente in parte e capace di restituire al meglio la componente comica, ma anche quella più drammatica dei suoi protagonisti.
Perché ancor più che in The Office, in Superstore viene facile commuoversi sia per le vicende personali dei protagonisti che per le scottanti dì tematiche sociali che la serie sceglie di approfondire. Sindacalizzazione, immigrazione, sanità, razzismo, controllo delle armi, maternità e parità di genere sono infatti solo alcuni dei principali nuclei di riflessione su cui la serie si è negli anni soffermata.
Perché mai come prima d’ora in una comedy eravamo riusciti a intravedere, trattati con tanto approfondimento, quelli che sono/potrebbero essere i problemi di lavoratori sotto salariati, costretti a mantenere un lavoro che per la maggior parte del tempo non li soddisfa, ma anzi li ripaga solo con costanti delusioni. Temi che vengono via via analizzati con cura e attenzione senza scadere nel ridicolo ma con un alto tasso di intelligente ironia e di brillante humor.
Problemi seri e delicati a cui i nostri protagonisti cercano soluzioni facili e immediate grazie al loro buon cuore, ma che spesso portano a ulteriori magagne burocratiche. Tematiche importanti che possono di certo far riflettere ma che comunque lasciano il giusto spazio all’elemento comico così da non risultare eccessivamente pesanti: un buon equilibrio che non stanca lo spettatore ma che semmai lo coinvolge ancora di più nelle storie dei protagonisti della serie!
Emozioni, risate e tanta originalità per una comedy che alla sua partenza sembrava una serie comica come tante, una brutta copia di The Office. Pregiudizi infrantisi dopo l’attenta visione di alcune puntate, destinate ad aprirci gli occhi per porci davanti un prodotto fresco e originale che sta riscuotendo un successo postumo e che speriamo continui a crescere col tempo.
L’originale straordinarietà dell’ordinario, ma non solo.