Attenzione: l’articolo può contenere spoiler sulla prima stagione di Sweet Tooth.
C’è una nuova serie Netflix con un bambino-cervo che parla di apocalisse, mi sa che la provo – per quanti spettatori che hanno deciso di guardare Sweet Tooth è andata così? Ci si è imbattuti nel trailer, si è dato uno sguardo, ci si è inteneriti alla vista di Gus e nel frattempo si è pensato la fine del mondo? Figo! Nessuna mega promozione da parte di Netflix, nessun annuncio in pompa magna, semplicemente qualche poster e un trailer per una serie tv fantasy che sarebbe potuta passare in sordina oppure diventare di nicchia per gli appassionati dell’omonima serie a fumetti (2009-2012, DC Comics per l’etichetta Vertigo) dell’autore canadese Jeff Lemire. Basti pensare alla grandissima attenzione mediatica che hanno avuto fin dagli albori altre serie fantasy targate Netflix come The Witcher o la più recente Shadow and Bone per notare la differenza. Eppure, in qualche modo, il piccolo Gus se n’è fatto un baffo (o un corno?) ed è uscito dalle retrovie per prendersi un posto da protagonista nel panorama delle serie tv del genere: Sweet Tooth è stata accolta con molto calore dal pubblico e il passaparola la sta rendendo una serie di successo per la quale già si attende con trepidazione il rinnovo, dato anche il finale apertissimo.
Ma a cosa deve questo successo Sweet Tooth?
La prima chiave per scoprirlo è rendersi conto che di “inaspettato” non c’è solo il successo stesso, ma anche il meccanismo narrativo con cui è stata raccontata una storia apocalittica. Nella stragrande maggioranza dei casi in cui ci si ritrova alle prese con una narrazione di questo genere – un fantasy, sì, ma con forti elementi distopici – a emergere sono i toni catastrofici, drammatici e carichi di tensione. Del resto, è proprio quel che ci si aspetta quando si parla virus letali e sconosciuti, ibridi, guerre e minacce per l’incolumità di tutta la popolazione. Se anche Sweet Tooth avesse adottato questa tecnica, nessuno si sarebbe stupito, ma è quasi certo che non saremmo stati qui a parlare del suo particolare successo: il rischio sarebbe stato quello di incastonarsi alla perfezione nell’universo di fantasy/distopici, magari mostrando comunque grande qualità, però difficilmente qualcosa di innovativo.
Invece Sweet Tooth riscrive le regole dell’apocalisse ed è proprio questo che colpisce lo spettatore fin dal primo momento: l’atmosfera della serie. Ci sono momenti struggenti, ci sono situazioni drammatiche, ma ogni cosa è filtrata dal punto di vista dell’innocente Gus ed ecco che anche la scena più tragica e sconvolgente risulta comunque a misura di bambino (o di bambino-cervo). I toni della narrazione sono amichevoli, gentili. La scoperta che si possa parlare di tematiche così delicate in questo modo è una piacevole sorpresa. E a coronare questa atmosfera è senz’altro il verde, il colore predominante nella serie, il colore della natura (non si sa per quanto) incontaminata, il colore della speranza che accende un barlume per il futuro.
Ma attenzione a non scambiare questo filtro-bambino per un racconto semplicistico, perché Sweet Tooth di certo non lo è. All’interno di un’atmosfera dalle tinte tenui e gentili, si collocano elementi che costruiscono una storia complessa e ben organizzata che pone le basi per delle eventuali stagioni successive di livello altrettanto alto, se non di più.
Alla base del successo di Sweet Tooth c’è senz’altro il protagonista Gus.
Questo bambino ibrido con le corna da cervo e, soprattutto, le simpatiche orecchie che si muovono su e giù a seconda del suo umore, entra davvero facilmente nel cuore degli spettatori generando subito una grande empatia. Gus è un bambino orfano, ancor prima che egli stesso lo sappia: pensa di avere un padre – che conosce – e una madre – di cui ha visto solo una foto – come tutti gli altri, eppure è chiaro che Gus non è nemmeno lontanamente come tutti gli altri e la scoperta, verso la fine della stagione, che il bambino sia frutto di un esperimento scientifico conferma la sensazione iniziale.
Gus è diverso e per questa sua diversità rischia di perdere tutto, anche sé stesso. Gente grande e sconosciuta lo insegue, lo vuole catturare, lo vuole studiare e lui nemmeno sa perché. Vede morire colui che pensa sia suo padre e si ritrova solo. Però ha delle armi indistruttibili: la speranza (di ritrovare sua madre e non solo) e la capacità di vedere il buono in ogni persona – anche in chi non la vede in se stesso, come Jepperd.
Quando Gus si mette in viaggio col più improbabile dei compagni, un omone grande e grosso che dovrebbe incutergli paura ma che il bambino riconosce subito come un valido amico, il viaggio comincia per ognuno di noi. La ricerca della propria identità, di un posto nel mondo, di persone fidate con cui condividere l’esistenza non riguardano soltanto il protagonista di un fantasy, riguardano tutti.
E arriviamo a un altro importante tassello del successo di questa produzione Netflix: l’universalità.
Potrebbe suonare strano, perché è di ibridi che stiamo parlando. Eppure Sweet Tooth non ci mostra scenari impossibili, se sappiamo guardarli attentamente. Sweet Tooth ci mostra il nostro mondo, i pericoli in cui potremmo incorrere (o in cui siamo già incorsi – al centro delle vicende c’è un virus letale che minaccia l’intero mondo, difficile non pensare alla pandemia del Coronavirus) e una serie di tematiche per nulla lontane da noi: la diversità, con il rischio di discriminazione e la battaglia per l’integrazione, e la natura, che potrebbe cercare di prendersi la sua rivalsa dopo le malefatte degli uomini nei suoi confronti. Non è un caso se coloro i quali sembrano essere gli unici ad avere il potere di sistemare le cose siano ibridi, bambini-animali ben più vicini all’essenza della natura rispetto agli uomini.
E per veicolare questi messaggi, la serie intreccia diversi filoni narrativi presenti e passati, mostrando un’ampia gamma di personaggi che all’inizio sembrano avere poco a che fare gli uni con gli altri ma che, andando avanti, si scoprirà essere tutti fili della stessa trama. Questo consente di ricostruire piano piano la situazione, mettendo insieme le tessere di un puzzle molto più grande di quel che si pensi. Un po’ come succede nella vita di tutti i giorni, per averne il quadro completo bisogna spesso fare un passo indietro e osservare tutto nell’insieme.
Da sottolineare, in ultimo, l’efficacia del numero di episodi (8) e il finale travolgente che pone basi perfette per una nuova stagione.
Ultimamente Netflix ha proposto prime stagioni di nuove serie con un numero davvero esiguo di episodi, dai 6 agli 8. Questa strategia non è sempre risultata efficace, si pensi a Tribes of Europa o FATE: The Winx Saga, dove si avverte la mancanza di quei due o tre episodi in più per dare un quadro più chiaro degli eventi e un approfondimento più soddisfacente dei personaggi. In Sweet Tooth questa percezione sembra non esserci, gli episodi funzionano così con il loro numero e la loro lunghezza: non ci sono momenti morti o scene superflue, così come non ci sono lacune o mancanze.
L’episodio finale, che giunge come punto più alto di un climax, riesce a coinvolgere ed emozionare, oltre a dare risposte ad alcune domande, suscitandone altre. Il momento in cui Gus, imprigionato, si trova circondato da altri ibridi e quindi per la prima volta si sente parte di un gruppo è forse l’attimo più toccante dell’intera stagione. Mentre la scena in cui Bear si mette – per caso – in contatto con Birdie carica di aspettative per la stagione successiva (che speriamo ci sia). Insomma, l’ultimo episodio sa colpire lo spettatore su più fronti e questo contribuisce alla pubblicità più efficace: ehi, ho appena finito una serie pazzesca su Netflix, devi assolutamente guardarla!